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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Ludwig

1973

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La monumentale discesa agli inferi di un esteta. Non si potrebbe definire altrimenti Ludwig, la terza e conclusiva gemma della "trilogia tedesca" di Luchino Visconti, un'opera che si erge come un mausoleo barocco, un sepolcro di velluto e oro eretto alla memoria non tanto di un re, quanto di un'idea di bellezza tanto sublime da diventare autodistruttiva. Se La caduta degli dei era un'orgia di potere wagneriana che danzava sulle rovine del nazismo e Morte a Venezia un'elegia febbrile sulla decadenza fisica e artistica, Ludwig è il requiem estenuante e magnifico per l'ultimo romantico, un uomo che tentò di trasformare il proprio regno in un'opera d'arte totale (Gesamtkunstwerk), finendo per esserne divorato.

Visconti non realizza un biopic nel senso convenzionale del termine. Il suo cinema, qui più che mai, è un atto di contemplazione quasi archeologica. Come Stanley Kubrick farà pochi anni dopo con il suo Barry Lyndon, Visconti insegue una verità non tanto fattuale quanto atmosferica, un'immersione sensoriale in un'epoca al suo crepuscolo. La luce delle candele tremolante sui broccati, il peso opprimente degli arredi, i silenzi dilatati negli immensi saloni dei castelli bavaresi: ogni fotogramma è denso, saturo di una malinconia sontuosa. La cinepresa di Armando Nannuzzi si muove con una lentezza ieratica, quasi liturgica, costringendo lo spettatore a entrare non nella Storia, ma nello stato d'animo del suo protagonista. Non c'è epica della battaglia o intrigo politico che tenga; il vero dramma si consuma negli interstizi, negli sguardi, nella progressiva capitolazione di un'anima al cospetto di un mondo – quello prussiano, bismarckiano, industriale – che non comprende più il linguaggio della grazia e della fantasia.

Al centro di questo universo in disfacimento, Helmut Berger offre una delle performance più totalizzanti e simbiotiche della storia del cinema. Il suo Ludwig non è interpretato, è incarnato. Visconti, suo mentore e pigmalione, lo scolpisce come la sua creatura definitiva, tracciando con una precisione quasi sadica la parabola discendente del personaggio. Dalla bellezza efebica e quasi virginale dell'incoronazione, con gli occhi accesi di un idealismo febbrile, fino al disfacimento fisico degli ultimi anni – i denti guasti, il corpo appesantito, lo sguardo perso nel delirio –, Berger si offre come icona sacrificale. È un viaggio che ricorda, per la sua spietata coerenza, quello del Dorian Gray di Wilde, ma dove il ritratto che invecchia e si corrompe è il corpo stesso, specchio di un'anima erosa dal sublime.

Il cuore pulsante del film è il rapporto tra Ludwig e Richard Wagner. Non è semplice mecenatismo, ma un'ossessione feticistica, una trasfusione di vita e di finanze dal re all'artista in nome di un ideale estetico assoluto. Ludwig non vuole solo finanziare l'opera di Wagner; vuole abitarla. I suoi castelli – Neuschwanstein, Linderhof, Herrenchiemsee – non sono residenze reali, ma scenografie permanenti, sintomi litici di una psicosi estetica. Sono sogni pietrificati, costruiti per sfuggire alla volgarità del reale. In questo, Ludwig è un fratello spirituale di Des Esseintes, il protagonista di Controcorrente di Joris-Karl Huysmans, l'archetipo del decadente che si ritira dal mondo per creare un universo artificiale e iper-raffinato. Come Des Esseintes, Ludwig cerca la salvezza nell'artificio, nel teatro, nella musica, tentando di sublimare un desiderio – omoerotico, ma più in generale, un desiderio di comunione spirituale – che la realtà gli nega. Wagner (un superbo Trevor Howard) è al contempo il sommo sacerdote di questo culto e il suo parassita più esoso, un genio egoista che comprende e sfrutta la devozione quasi religiosa del suo protettore.

Accanto a Wagner, l'altra figura speculare è l'imperatrice Elisabetta d'Austria, "Sissi". E qui Visconti compie un'operazione metacinematografica di rara intelligenza. Scegliendo Romy Schneider, l'attrice per sempre legata all'immagine edulcorata e popolare di Sissi nei film degli anni Cinquanta, il regista crea un cortocircuito struggente. La Schneider di Visconti è una donna disincantata, nevrotica, intrappolata nella sua stessa icona, proprio come Ludwig è prigioniero del suo ruolo. I loro dialoghi sono conversazioni tra due fantasmi elegantissimi, due anime affini nella loro incapacità di adattarsi al mondo, che si riconoscono in una comune condanna alla bellezza e alla solitudine. È come se Visconti costringesse il mito a guardarsi allo specchio e a vedere le rughe, la tristezza, la verità dietro la fiaba. È una delle più potenti decostruzioni di un'icona pop che il cinema abbia mai osato.

Girato nel 1972, in un'Europa ancora scossa dalle utopie e dalle disillusioni del '68, Ludwig è un film profondamente fuori tempo massimo, e per questo, profetico. È un'opera che riflette sulla fine delle aristocrazie (tema caro a Visconti, il "conte rosso") e sulla brutalità con cui la ragion di Stato e l'economia schiacciano l'individualità e il sogno. La lunga sezione finale, quasi processuale, in cui il re viene deposto attraverso perizie mediche fredde e burocratiche, è un atto d'accusa contro la normalità che patologizza la diversità, contro il pragmatismo che lobotomizza l'immaginazione. La stessa travagliata storia produttiva del film – mutilato dai produttori alla sua uscita e restaurato solo anni dopo secondo la volontà del regista – sembra quasi un'eco della vicenda di Ludwig: un'opera d'arte maestosa e "scomoda", incompresa e fatta a pezzi da logiche commerciali.

Ludwig non è un film facile. La sua durata estenuante (nella versione integrale), il suo ritmo funebre, la sua magniloquenza visiva possono respingere. Ma è un'esperienza immersiva, un'ipnosi che, se accettata, rivela una profondità abissale. È una riflessione potentissima sulla natura dell'arte come rifugio e come prigione, sul potere come maschera che soffoca l'identità, e sulla bellezza come la più meravigliosa e terribile delle condanne. L'immagine finale del corpo del re che galleggia nelle acque del lago di Starnberg, accanto a quello del suo medico, non è solo la fine di una vita, ma l'eclissi di un mondo. Un mondo in cui un re poteva ancora credere, follemente, che un'aria di Wagner o la costruzione di un castello da fiaba fossero più importanti e più reali di un trattato di pace o di un bilancio dello Stato. È la sconfitta del cigno, e Visconti ne canta l'elegia con una grazia funerea e indimenticabile.

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