L'ultimo metrò
1980
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Regista
Un teatro, nella Parigi del 1942, non è semplicemente un edificio. È un vascello che naviga a fari spenti nella notte dell'Occupazione. È un corpo la cui pelle è il palcoscenico, dove si recita la farsa della normalità, mentre nelle sue viscere, nella cantina-cuore, pulsa la vita vera, clandestina e minacciata. François Truffaut, con L'ultimo metrò, non firma semplicemente un film sulla Resistenza, ma orchestra una sontuosa, disperata e lucidissima sinfonia sulla natura stessa della rappresentazione, dove sopravvivere è la più grande delle performance e l'arte è l'unico atto di fede possibile.
Ci troviamo nel Théâtre Montmartre, un microcosmo che riflette e rifrange le tensioni della Francia di Vichy. Alla sua guida c'è Marion Steiner, interpretata da una Catherine Deneuve che cristallizza la sua iconica algidità in una maschera di pura necessità. È lei il capitano di questa nave nella tempesta. Ogni suo gesto è misurato, ogni sorriso è un calcolo, ogni parola una strategia. Gestisce attori, tecnici, finanziamenti e le attenzioni viscide del critico filonazista Daxiat, un perfetto esemplare di quella melma intellettuale che prospera nell'opportunismo. Ma la sua performance più estenuante avviene a sipario calato, quando scende in cantina a trovare il marito, Lucas Steiner (Heinz Bennent), regista ebreo e tedesco che tutti credono fuggito in Sud America. Lì, nel sottosuolo, si nasconde non solo un uomo, ma l'anima stessa del teatro: l'intelletto, la creazione, la coscienza critica. Lucas, dalla sua prigione volontaria, ascolta tramite un condotto dell'aria le prove della nuova pièce, dirigendo la sua opera e sua moglie a distanza, come un demiurgo imprigionato che muove i fili di un mondo che non può più abitare.
Questo sdoppiamento topografico – il sopra e il sotto, il palco e la cantina, la menzogna pubblica e la verità privata – è il motore drammaturgico e filosofico del film. Truffaut, il cinefilo onnivoro, sembra quasi dialogare con il Fritz Lang di Metropolis, rovesciandone la dialettica: qui non sono gli operai a lavorare nel sottosuolo per far brillare la città in superficie, ma è l'intelletto a pulsare nelle tenebre per permettere all'illusione dell'arte di continuare a risplendere in superficie come un faro di civiltà. La vita in platea, sotto le luci calde e ambrate della fotografia di Néstor Almendros (un vero e proprio sortilegio visivo che trasforma ogni interno in un rifugio uterino contro il blu gelido del coprifuoco esterno), è una recita. La vita vera, quella fatta di paura, di sussurri e di resistenza, è confinata nell'ombra.
In questo mondo a compartimenti stagni irrompe l'elemento del caos, il reagente chimico che accelera ogni processo: Bernard Granger, un Gérard Depardieu al culmine della sua straripante energia vitale. Attore di teatro e donnaiolo impenitente, Bernard è l'antitesi di Marion. Dove lei è controllo, lui è istinto; dove lei è dissimulazione, lui è passione frontale. La tensione erotica che si crea tra i due non è un semplice orpello romantico, ma l'incarnazione dello scontro tra due diverse strategie di sopravvivenza: la resistenza passiva, calcolata, di Marion, e quella attiva, impetuosa, quasi suicida, di Bernard, che si scoprirà essere un membro della Resistenza. Il loro amore, che sboccia tra le quinte, è un'altra forma di clandestinità, un altro segreto da custodire in un'architettura di segreti. È un triangolo amoroso degno di un romanzo di Henry James, se James avesse ambientato le sue storie di repressione emotiva sotto la minaccia costante della Gestapo. L'amore tra Marion e Bernard, e la lealtà incrollabile di Marion verso Lucas, non si escludono a vicenda, ma coesistono in uno stato di precario, doloroso equilibrio, specchio di una nazione scissa tra il dovere di resistere e il bisogno di continuare a vivere, ad amare.
Dal punto di vista meta-testuale, L'ultimo metrò è l'opera più complessa e, in un certo senso, più commovente di Truffaut. L'ex giovane turco dei Cahiers du Cinéma, colui che aveva cercato di demolire il "cinéma de papa", il cinema della "qualité française", qui ne realizza l'esemplare più perfetto. La struttura è classica, la narrazione è lineare, la recitazione impeccabile. Non c'è traccia delle sgrammaticature visive e delle corse a perdifiato della Nouvelle Vague. Perché? Perché Truffaut capisce, con la saggezza della maturità, che in un'epoca di caos e dissoluzione, la forma non è una gabbia, ma un argine. L'eleganza formale del film, la sua grammatica quasi accademica, diventa essa stessa un atto di resistenza contro la barbarie. È un omaggio a quel cinema francese degli anni '40 che, nonostante la censura e l'occupazione, continuava a produrre opere di straordinaria fattura, come a dire: potrete occupare le nostre strade, ma non la nostra arte. In questo senso, Truffaut non è più Jean-Pierre Léaud che corre verso il mare in Les 400 coups; è diventato Lucas Steiner, il regista che dal basso infonde ordine, senso e bellezza in un mondo che li ha perduti.
Il film è intessuto di un amore feticistico per il teatro e, per estensione, per il cinema. Ogni dettaglio è una carezza a un mondo che Truffaut venera: il rumore dei tacchi sul legno del palco, la polvere che danza nei fasci di luce, i rituali scaramantici degli attori, la tensione febbrile del debutto. Si respira l'aria di un backstage che è, al contempo, un laboratorio di alchimie artistiche e un covo di cospiratori. L'opera che la compagnia mette in scena, "La Disparue", è un'evidente metafora della situazione stessa dei personaggi, un gioco di specchi in cui la finzione sul palco illumina la realtà della vita. Questa fusione tra arte e vita raggiunge il suo apice nella sublime sequenza finale. A Liberazione avvenuta, il sipario si alza. Sul palco, Marion e Bernard recitano la scena finale della pièce. Ma poi, con un movimento di macchina quasi impercettibile, Truffaut ci mostra Lucas tra il pubblico, che applaude. L'attrice sul palco bacia l'attore, ma lo sguardo è rivolto al vero marito in platea. Le due realtà, quella scenica e quella biografica, si sovrappongono fino a diventare indistinguibili. Il celebre "Je vous aime bien tous les deux" ("Vi amo entrambi") che Marion sussurra non è la risoluzione di un triangolo, ma l'accettazione di una complessità che l'arte è riuscita a contenere e a sublimare.
A differenza di opere più cupe e disincantate sulla Resistenza, come il capolavoro funereo di Jean-Pierre Melville, L'Armée des ombres, quello di Truffaut è un film pervaso da un incrollabile umanesimo. Non nega l'orrore, la delazione, la paura, ma sceglie di concentrarsi sulla resilienza dello spirito umano e sulla funzione salvifica della bellezza. Il teatro Montmartre, come la fortezza volante di Laputa di Swift o il sottomarino Nautilus di Verne, è un'utopia mobile, un luogo franco dove, per la durata di uno spettacolo, è ancora possibile credere nella grazia, nell'intelligenza e nella solidarietà. L'ultimo metrò, l'ultima corsa per tornare a casa prima che scatti il coprifuoco, diventa così il simbolo di una corsa contro il tempo per salvare non solo i corpi, ma l'anima di una cultura. È il capolavoro di un autore che ha trovato, nella rievocazione del passato e nella celebrazione della forma, la sua più autentica e toccante dichiarazione di poetica. Un film che ci ricorda che, quando il mondo esterno diventa invivibile, l'unico rifugio possibile è un rettangolo di luce: che sia un palcoscenico o lo schermo di un cinema.
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