L'Uomo di Aran
1934
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Regista
Dopo le fredde terre dell'Alaska, dove ci aveva disvelato il titanico scontro tra l'uomo Inuit e l'implacabile gelo artico, ecco un altro geniale excursus di Robert Flaherty nella selvaggia natura per documentare l’improbo rapporto tra l’uomo e l’elemento. L'Uomo di Aran (Man of Aran, 1934) è un'opera che trascende i confini del documentario in senso stretto, per diventare un poema epico sulla lotta per la sopravvivenza, un inno alla forza e alla resilienza dell'uomo di fronte alla potenza ciclopica della natura. Flaherty, autentico pioniere del cinema documentaristico – o forse meglio dire, del cinema di osservazione poetica –, ci trasporta questa volta sulle isole Aran, al largo della costa occidentale dell'Irlanda, dove una comunità di pescatori, atavica e fieramente indipendente, affronta quotidianamente le sfide di un ambiente ostile e selvaggio. Con uno stile che è allo stesso tempo immersivo e lirico, quasi un’ode visiva, Flaherty ci mostra la vita di questi uomini e donne, il loro legame indissolubile e profondo con il mare e la terra, la loro lotta incessante contro gli elementi, non di rado piegando la realtà narrativa per esaltare il dramma e l'archetipicità del loro esistere. L'Uomo di Aran è un'opera che ha segnato in modo indelebile la storia del cinema, un capolavoro di realismo viscerale e di poesia tragica che scava nella realtà con il proprio instancabile occhio – e talvolta con un'intuitiva messa in scena – per restituire la vera essenza di essa al pubblico con intento squisitamente scientifico, sì, ma anche profondamente artistico e romantico.
L'opera si concentra sulla vita quotidiana degli abitanti delle isole Aran, un palinsesto di tradizioni e rituali di sopravvivenza tramandati di generazione in generazione. Seguendo una famiglia composta da un uomo, una donna e un ragazzo, Flaherty ci mostra le loro attività di pesca, la coltivazione delle patate su terreni rocciosi e fertilizzati con alghe marine – un ingegnoso e faticosissimo stratagemma per strappare nutrimento alla terra ostile –, la costruzione di una robusta barca dal fondo piatto (il "curragh"), e la mitica, drammatica caccia allo squalo. La macchina da presa di Flaherty, con una maestria quasi scultorea, cattura la bellezza selvaggia e indomita del paesaggio, la forza primordiale delle onde che si infrangono con violenza titanica sulle scogliere impervie, la fatica ininterrotta e la determinazione incrollabile degli uomini che affrontano il mare in tempesta, come moderni Ulisse votati all'eterna sfida. La sequenza della caccia allo squalo, in particolare, pur essendo stata, come in Nanook del Nord, in gran parte inscenata o ricostruita per le esigenze drammatiche del film – un dettaglio che sollevò dibattiti ma che per Flaherty era funzionale a rendere l'essenza di un'esperienza quasi mitologica –, rimane una delle più memorabili e visceralmente potenti, un culmine di tensione e pura adrenalina che esalta la coraggiosa temerarietà dei pescatori. Un'altra scena che si imprime nella memoria dello spettatore, per la sua vertiginosa intensità, è quella in cui il ragazzo pesca in piedi su una vertiginosa scogliera, una scena di un equilibrio precario che simboleggia, con una potenza quasi pittorica, il coraggio atavico e al contempo la struggente fragilità dell'uomo di fronte all'immane e indifferente potenza della natura. Questa immagine, infatti, si eleva a metafora universale, in ottica quasi Leopardiana, di un'umanità condannata a una lotta perenne, consapevole della propria effimera esistenza in un cosmo dominato da forze cieche e gigantesche. Veniamo introdotti in un microcosmo dove vige una legge avulsa da ogni compromesso sociale, una regola che tende darwinianamente a favorire il più forte, il più adattabile, il più tenace, ma che, al tempo stesso, forgia caratteri di straordinaria tempra morale.
L'influenza di Darwin su Flaherty è evidente non solo nella sua attenzione all'adattamento dell'uomo all'ambiente e alla lotta per la sopravvivenza, ma anche nella meticolosità con cui osserva le strategie di vita di queste popolazioni, quasi fossero specie biologiche in un habitat estremo. Flaherty si cala sulla realtà con un occhio analitico in cui osservazione scientifica e sintesi antropologica trovano un punto d’incontro fecondo e raramente eguagliato. In lui è soprattutto chiaro l'intento antropologico di accostarsi ad una nuova cultura, un mondo quasi incontaminato dalla modernità, e lo fa con tutto il rispetto che questa operazione comporta, evitando giudizi e lasciando parlare l'azione e l'ambiente. Dal suo stile registico, che predilige i lunghi sguardi e i volti scavati dal tempo e dalla fatica, risulta altrettanto chiaro l'immenso amore che egli nutre per queste popolazioni, per le loro straordinarie risposte ad un ambiente ostile che vorrebbe fagocitarli. La fotografia in bianco e nero, cruda ma sublime, esalta i contrasti e le texture, trasformando le tempeste in sinfonie visive e i volti in mappe di esperienze ancestrali. L'Uomo di Aran, premiato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1934, non è solo una cronaca di vita isolana; è un'esplorazione filosofica della condizione umana, un'epopea di resistenza che risuona con la forza dei miti greci e la determinazione dei coloni pionieri. Con L'Uomo di Aran siamo di nuovo di fronte ad una pietra miliare del cinema naturalistico, un film che ha influenzato generazioni di registi, dalla Nouvelle Vague francese ai neorealisti italiani che ammiravano la sua capacità di ritrarre l'uomo comune nella sua lotta quotidiana, e certamente della Settima Arte nella sua accezione più nobile e universale. La sua risonanza emotiva e la sua forza estetica persistono, rendendolo un documento non solo storico o antropologico, ma un'opera d'arte senza tempo.
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