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Interceptor, il Guerriero della Strada

1981

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Secondo film della saga di Mad Max firmato dall’australiano George Miller. Un’opera che, al netto della sua natura sequel, non solo consolida ma ridefinisce i contorni di un universo narrativo già potentemente abbozzato nel suo predecessore. Si tratta, infatti, di uno di quei rari e preziosi casi in cui il secondo capitolo si fa largamente preferire al primo, non per un mero incremento di budget o ambizione, ma per un più affinato senso del ritmo narrativo, una fotografia che eleva la desolazione a cifra stilistica e un talento registico nel trasporre il racconto in immagini che qui raggiunge la sua piena maturità espressiva. Se il primo Mad Max era un grido disperato, un’esplosione di violenza punk alimentata da un budget risicato e da una rabbia viscerale, Interceptor, il Guerriero della Strada si trasforma in un’epopea, una vera e propria mitologia del dopobomba, conferendo al suo protagonista una statura quasi archetipica e all’ambiente circostante la dignità di coprotagonista.

Un giovanissimo Mel Gibson, nel pieno della sua acerba ma carismatica prestanza, presta il suo phisique du role a questo avventuriero relittuoso, un ‘uomo senza nome’ che solca le cicatrici di un futuro distopico. Il mondo, come lo conosciamo, è stato spazzato via da una non precisata catastrofe bellica – un’eco forse delle paure atomiche e delle crisi energetiche che agitavano l’Occidente negli anni Settanta e Ottanta – che ha prosciugato ogni risorsa dalla terra. In questo scenario di penuria assoluta, gli uomini si trovano a lottare con una ferocia primordiale per il carburante, elevato al rango di bene più prezioso, simbolo non solo di mobilità ma di sopravvivenza stessa, di libertà e di potere in un’era post-civilizzazione dove la legge del più forte è l’unica moneta di scambio.

In questo desolato contesto, dove il deserto ha riconquistato le terre emerse e il progresso è regredito a una lotta quotidiana per l'esistenza, i veicoli a motore non sono semplici mezzi di trasporto, ma vere e proprie estensioni della volontà, corazze d’acciaio nel nuovo Far West, gli unici strumenti che garantiscono la sopravvivenza in un’anarchia regredita. Sono santuari mobili, armi, case e tombe. Il nostro eroe, Max Rockatansky, una figura solitaria e cinica, quasi un monaco guerriero votato alla sopravvivenza individuale, si ritrova, suo malgrado, a infrangere la propria autosufficienza per aiutare una comunità di scampati all’Apocalisse. Questi, ultimo baluardo di un’umanità che ancora crede nella solidarietà, tentano di difendere l’inestimabile carburante dagli assalti di una banda di tagliagole senza scrupoli, una tribù barbara e grottesca guidata dal terribile Humungus. Quest'ultimo, un gigante mascherato con un eloquio quasi shakespeariano, è più di un semplice villain; è l'incarnazione della barbarie organizzata, il volto del potere che emerge dal caos, affiancato dal suo fedele e ferale luogotenente Wez, una vera forza della natura di pura, incontrollabile violenza.

Molto buono è l’uso della fotografia di Dean Semler che, attraverso cromie bruciate, orizzonti infiniti e cieli plumbei, riesce a dare il sapore, la cifra di questa desolazione post-nucleare. La polvere, il sudore, il metallo contorto e le carni martoriate diventano elementi di una palette visiva che trascende il puro realismo per sfociare in un’estetica quasi pittorica della rovina. Miller dal canto suo dimostra un invidiabile mestiere nelle scene d’azione, plasmando il caos in una coreografia di distruzione che ha pochi eguali. Il suo eccelso lavoro non si limita a impressionare per la sua spettacolarità, ma ha il merito storico di creare un nuovo genere di Car Crash Movies, o meglio, di reinterpretarne le fondamenta, elevandole a un balletto cinetico di lamiere e velocità. Qui, il clangore delle carrozzerie deformate, il rombo assordante dei motori truccati e il sudore dei bicipiti tesi in uno sforzo disperato non formano un mero mix vincente, ma un linguaggio cinematografico autonomo. L’uso quasi ossessivo di stunt pratici, a costo di rischi enormi per il cast e la troupe, conferisce a ogni impatto, ogni ribaltamento, una gravitas fisica e una visceralità che le odierne, pur spettacolari, CGI spesso faticano a replicare. Ogni esplosione è reale, ogni derapata è un virtuosismo meccanico.

Un film adrenalinico dunque, con qualche notevole spunto fantascientifico, merito della sceneggiatura dallo stesso Miller e di Terry Hayes. Ma ridurre Interceptor a mero spettacolo d’azione sarebbe un’ingiustizia. Sotto la patina di benzina e sangue si nasconde una riflessione amara sulla natura umana, sulla caducità della civiltà e sulla perenne lotta tra l’ordine e il caos. È un western sui generis, dove i cavalli sono sostituiti da veicoli mostruosi e gli indiani da bande post-apocalittiche, ma l'anima è quella del solitario giustiziere, della comunità assediata e della fuga verso un orizzonte di speranza incerto. La sua influenza è stata enorme, permeando la cultura pop e definendo per decenni l'immaginario del post-apocalittico in cinema, televisione e videogiochi. È un testamento della capacità di Miller di costruire un mondo credibile, brutale eppure stranamente affascinante, un monito distopico che continua a risuonare, un quarto di secolo dopo, con una perturbante attualità, invitandoci a riflettere sul costo della nostra dipendenza energetica e sulla fragilità della nostra civiltà.

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