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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Martha

1974

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La vertigine del controllo, in Rainer Werner Fassbinder, assume spesso la forma di una rotazione. Un giro di giostra, un carosello di sadismo, un pan a 360 gradi che avvolge i suoi personaggi in una prigione circolare di sguardi e oggetti. In Martha, questo movimento, orchestrato dal genio di Michael Ballhaus alla macchina da presa, non è un semplice vezzo stilistico; è la tesi stessa del film, la planimetria dell'inferno domestico che sta per dischiudersi. Quando Martha Heyer (una magnifica Margit Carstensen, maschera di porcellana pronta a creparsi) incontra Helmut Salomon (Karlheinz Böhm, la cui metamorfosi dall'angelico imperatore di Sissi a questo ingegnere della crudeltà è uno dei più agghiaccianti contrappassi della storia del cinema) a Roma, la cinepresa gira attorno a loro, li isola dal mondo, li consacra a un destino che è già scritto nel cerchio perfetto della sua traiettoria. È un corteggiamento che è già una cattura, un valzer che è già un cappio.

Fassbinder, alchimista del melodramma, prende qui il suo nume tutelare, Douglas Sirk, e lo sottopone a un processo di vivisezione spietata. Se in film come Secondo amore o Come le foglie al vento la prigione dorata della borghesia era fotografata con Technicolor sgargianti per esporne l'ipocrisia sentimentale, in Martha la stessa ipertrofia cromatica diventa uno strumento di tortura psicologica. I colori saturi, i vestiti impeccabili, gli interni borghesi lussuosi e soffocanti non nascondono più un'infelicità romantica; la producono attivamente. Fassbinder non si limita a citare Sirk: lo spinge alle sue estreme, logiche conseguenze. Svuota il melodramma di ogni possibile catarsi, di ogni lacrima liberatoria, e ci lascia con l'ingranaggio nudo e cigolante del potere. La villa di Helmut non è la casa di provincia in cui si consuma un amore impossibile; è il laboratorio di un esperimento sadomasochistico unilaterale, un castello di Barbablù dove le stanze proibite non contengono cadaveri, ma regole.

La relazione tra Martha e Helmut è una disamina quasi clinica della dialettica servo-padrone hegeliana, traslata però in un contesto di sconcertante banalità quotidiana. Helmut non è un mostro da romanzo gotico; è un ingegnere civile, un uomo ossessionato dalla logica, dalla statistica e dall'efficienza. La sua crudeltà non è passionale, ma metodica, quasi burocratica. È un architetto della sottomissione. Le sue regole sono tanto assurde quanto ferree: Martha non deve leggere i suoi amati libri perché le "affaticano la mente", deve ascoltare una specifica canzone perché lui l'ha scelta per lei, deve respirare in un certo modo, deve temere le altezze perché così ha deciso il suo manuale di statistica. È una colonizzazione totale dell'essere, un'occupazione militare dello spazio psichico. In questo, il film si avvicina più a Kafka che a De Sade. Martha non è intrappolata in un vortice di perversioni erotiche, ma in un processo di cui ignora le accuse, in un castello di cui non comprende le leggi. La sua colpa è la sua stessa esistenza, la sua individualità, che Helmut si impegna a smantellare pezzo per pezzo con la precisione di un demolitore.

La performance di Karlheinz Böhm è capitale. L'attore, conscio del suo passato iconico come volto pulito del cinema tedesco del dopoguerra, usa la sua stessa immagine per creare un cortocircuito spaventoso. Il suo sorriso è una smorfia di superiorità, la sua calma è una minaccia latente. È la perfetta incarnazione di quella Germania del Wirtschaftswunder, il miracolo economico, che sotto una facciata di ordine, prosperità e razionalità nascondeva le pulsioni autoritarie e la violenza mai del tutto sopite del recente passato. Helmut, con la sua fede cieca nella tecnica e nel controllo, è il fantasma di un'intera nazione, il prodotto di una società che ha sostituito l'etica con la procedura, la morale con la norma. La sua casa, un trionfo del design anni '70, diventa così un microcosmo di questa nuova Germania: impeccabile, funzionale, sterile e totalmente priva di umanità.

Ma il genio di Fassbinder, e la ragione per cui Martha è un'opera così perturbante, risiede nell'ambiguità del ruolo di Martha. Non è semplicemente una vittima passiva. La sua sottomissione ha radici più profonde. Fassbinder ce la presenta fin dall'inizio come una donna fragile, nevrotica, cresciuta all'ombra di un padre opprimente e di una cultura repressiva. C'è in lei una sorta di predisposizione al giogo, un masochismo latente che Helmut, con l'istinto di un predatore, riconosce e sfrutta. La famosa scena sulla montagna russa, dove il terrore di lei si mescola a una strana forma di eccitazione erotica, è emblematica. La paura e il desiderio, la sottomissione e una perversa forma di sicurezza, si fondono in un nodo inestricabile. Lei non desidera il dolore, ma forse desidera la fine dell'incertezza, la liberazione dalla terribile fatica della libertà e della scelta. In un mondo che la terrorizza, la tirannia di Helmut le offre, paradossalmente, una struttura, un ordine. È un'idea terrificante che anticipa di decenni opere come La pianista di Haneke, dove la perversione è l'unica grammatica emotiva possibile per anime danneggiate.

La regia di Fassbinder è un saggio di cinema. La macchina da presa non si limita a registrare l'azione, ma la commenta, la giudica, la imprigiona. I movimenti fluidi e complessi di Ballhaus creano un senso di claustrofobia onnisciente. Gli specchi e le superfici riflettenti sono onnipresenti, a frammentare l'identità di Martha, a mostrarla costantemente sotto lo sguardo di qualcun altro (Helmut, la cinepresa, noi). Le inquadrature attraverso porte e finestre (un altro omaggio a Sirk, ma anche a Hitchcock) la inscatolano costantemente in cornici dentro la cornice, sottolineando la sua condizione di reclusa. È un formalismo esasperato che però non è mai gratuito: la forma è il contenuto. L'estetica del film è la sua etica, o meglio, la sua assenza.

Se si dovesse cercare un discendente contemporaneo dello spirito di Martha, lo si potrebbe trovare, per vie traverse, in Phantom Thread di Paul Thomas Anderson. Anche lì, una relazione è un campo di battaglia per il controllo, un sistema chiuso di regole e rituali, dove l'amore è indistinguibile dalla dipendenza e dalla sopraffazione. Ma dove Anderson lascia uno spiraglio a una negoziazione perversa del potere, a un equilibrio tossico ma funzionale, Fassbinder chiude ogni porta. Il finale di Martha è di un nichilismo assoluto, di una crudeltà logica che lascia senza fiato. Dopo un disperato tentativo di fuga, un incidente d'auto la lascia paralizzata dalla vita in giù. Ora è completamente dipendente da Helmut. Il suo sogno di liberazione si è trasformato nella sua condanna definitiva. Helmut, con un sorriso serafico, può finalmente prendersi cura di lei, possederla totalmente, senza più alcuna resistenza. Il suo progetto è compiuto. Il cerchio si è chiuso, la rotazione è completa. E a noi non resta che il ronzio nelle orecchie, il riverbero di un capolavoro gelido e perfetto, un trattato implacabile sulla silenziosa brutalità che si nasconde dietro la carta da parati dei salotti buoni.

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