Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Mass

2021

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Regista

In una stanza spoglia di una parrocchia episcopale, preparata con una goffaggine quasi liturgica, si consuma un rito che la nostra civiltà ha dimenticato come officiare: quello della riconciliazione impossibile. L'opera prima di Fran Kranz, Mass, non è semplicemente un film; è un pezzo di teatro da camera trasfigurato in cinema, un quartetto d'archi per anime spezzate che suona una partitura di dolore puro, dissonante e infine, inaspettatamente, catartico. Quattro persone si siedono attorno a un tavolo. Due di loro hanno perso un figlio in una sparatoria scolastica. Le altre due sono i genitori del ragazzo che ha premuto il grilletto, prima di togliersi la vita. La premessa, nella sua essenzialità da tragedia greca, è un ordigno a orologeria emotivo.

Kranz, attore di lungo corso qui al suo esordio dietro la macchina da presa e con la penna, compie un atto di coraggio radicale. Rigetta ogni orpello cinematografico, ogni flashback esplicativo, ogni colonna sonora manipolatoria. Si affida unicamente a quattro attori monumentali (Jason Isaacs, Martha Plimpton, Ann Dowd, Reed Birney), a un copione cesellato con la precisione di un orologiaio svizzero e alla sacralità claustrofobica di un unico ambiente. L'effetto è quello di un esperimento di laboratorio sull'anima umana, una dissezione autoptica del lutto in tempo reale. Il cinema si fa specchio, lente d'ingrandimento, e la stanza diventa un acceleratore di particelle emotive dove le traiettorie di colpa, rabbia, negazione e un disperato bisogno di comprensione sono destinate a collidere.

Se la struttura richiama alla mente il Kammerspiel cinematografico di Bergman o la crudeltà salottiera di Carnage di Polanski, l'intento di Mass è diametralmente opposto. Laddove Polanski usava la stanza chiusa per scatenare una farsa nerissima sulla vacuità delle convenzioni borghesi, Kranz la utilizza come un confessionale laico, un santuario improvvisato dove le parole diventano l'unica forma di espiazione possibile. Il film è un lungo, estenuante, necessario processo verbale. Si inizia con i convenevoli goffi, il caffè offerto, le frasi di circostanza che suonano come vetri rotti in bocca. È il linguaggio al suo grado zero, un tentativo fallimentare di applicare le regole della civiltà a un evento che ha distrutto la civiltà stessa di quelle quattro vite.

Poi, lentamente, le dighe crollano. Jay (Isaacs) e Gail (Plimpton), i genitori della vittima, arrivano armati di domande, di una sete di razionalità che sperano possa dare un senso all'insensato. Lui, più analitico, cerca una spiegazione quasi scientifica, una concatenazione di cause ed effetti. Lei, un vulcano di rabbia e dolore congelato, vuole solo guardare negli occhi le persone che hanno generato il mostro e chiedere: non avete visto niente? Dall'altra parte del tavolo, Linda (Dowd) e Richard (Birney) sono l'incarnazione di un inferno diverso. Lei è un libro aperto di agonia e senso di colpa, un'anima che si offre al supplizio pur di trovare un frammento di perdono, o almeno di contatto. Lui è trincerato dietro un muro di diniego e pragmatismo, un uomo che ha scelto di non guardare nell'abisso per non esserne inghiottito.

È in questo scontro di prospettive che il film raggiunge vette di una potenza quasi insostenibile. La sceneggiatura di Kranz è un capolavoro di architettura emotiva. Ogni dialogo, ogni pausa, ogni sguardo è un mattone che costruisce e poi demolisce le difese dei personaggi. Si parla di segnali mancati, di solitudine adolescenziale, di videogiochi violenti, di responsabilità genitoriale. Ma questi sono solo significanti di superficie. Il vero dramma si svolge nel sottotesto, nella disperata ricerca di un "perché" che il film, con intelligenza e onestà brutali, si rifiuta di fornire. Mass comprende che la tragedia moderna, specialmente quella americana legata alle stragi di massa, non ha un "perché" univoco. È un buco nero culturale e psicologico, e il film non presume di illuminarlo, ma di costringerci a fissarlo, a sentirne la vertigine.

La regia di Kranz è invisibile e, proprio per questo, magistrale. La macchina da presa non è statica. Si avvicina lentamente ai volti, quasi impercettibilmente, man mano che le maschere sociali si sgretolano. Isola un dettaglio, una mano che trema, un labbro che si morde. Il montaggio detta il ritmo di un respiro affannoso, alternando primi piani strettissimi a campi totali che sottolineano la solitudine collettiva dei quattro personaggi in quella stanza anonima. È un cinema che eredita la lezione di Sidney Lumet in 12 Angry Men: la tensione non nasce dall'azione, ma dalla dialettica, dalla progressiva erosione delle certezze attraverso la forza della parola e la potenza della performance.

E che performance. Assistere a Mass è come partecipare a una masterclass di recitazione. Martha Plimpton è una ferita aperta, la sua rabbia è un fuoco purificatore che brucia ogni ipocrisia. Jason Isaacs mostra la fragilità dietro l'armatura dell'intelletto, un uomo che crolla quando capisce che nessuna logica può suturare il suo cuore. Reed Birney è terrificante nella sua normalità, nel suo rifiuto di accettare una realtà troppo mostruosa. Ma è Ann Dowd a compiere il miracolo. Il suo personaggio, Linda, è il cuore sacrificale del film. Porta su di sé il peso di un amore "sbagliato", l'amore incondizionato di una madre per un figlio che è diventato un demone agli occhi del mondo. Il suo monologo finale, in cui descrive un barlume di gioia nella vita del figlio, non è una giustificazione, ma un disperato atto di umanizzazione, un tentativo di reclamare un brandello di memoria pura prima che tutto venisse contaminato dall'orrore. È uno dei momenti più devastanti e profondi del cinema recente.

Il film può essere letto come una metafora dell'America contemporanea, una nazione traumatizzata e divisa che non sa più come parlare dei propri dolori più profondi. La stanza della chiesa diventa la nazione stessa, un luogo dove fazioni opposte, definite dalla tragedia, sono costrette a confrontarsi. Non c'è un giudice, non c'è un verdetto. C'è solo il tentativo di ascoltare. In questo senso, Mass è un'opera profondamente politica senza mai essere didascalica. La sua politica risiede nell'atto stesso di creare uno spazio per un dialogo impossibile, suggerendo che la guarigione, se mai possibile, non passa attraverso la giustizia o la vendetta, ma attraverso il riconoscimento del dolore dell'altro.

L'analogia più calzante, forse, non è cinematografica o teatrale, ma artistica. Mass è un'opera di Kintsugi, l'antica arte giapponese di riparare la ceramica rotta con l'oro. Non si nascondono le crepe, al contrario, le si evidenzia, le si nobilita, rendendo l'oggetto più prezioso e unico proprio in virtù della sua storia di rottura. I quattro personaggi arrivano in quella stanza come cocci di esistenze frantumate. Ne escono ancora rotti, ma forse, per un istante, hanno visto l'oro nelle crepe degli altri. Il film non offre la consolazione di una ricomposizione perfetta, ma la speranza radicale che anche dai frammenti più taglienti possa nascere una nuova, dolorosa forma di bellezza e comprensione. Un'opera prima sbalorditiva, un pezzo di cinema essenziale e purificatorio che si insinua sotto la pelle e continua a vibrare a lungo dopo che lo schermo è diventato nero. Un silenzio, infine, carico di tutto ciò che è stato detto.

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