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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Masumiyet

1997

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Un velo di sporcizia perenne, quasi metafisico, si deposita su ogni superficie in "Masumiyet" di Zeki Demirkubuz. Non è la polvere del tempo, ma il sedimento dell'anima, la patina lasciata da esistenze consumate in una stasi febbrile. Il cinema di Demirkubuz, e questo suo capolavoro del 1997 in particolare, non si limita a rappresentare il sordido; lo eleva a condizione esistenziale, a unico orizzonte visibile per i suoi personaggi, prigionieri non tanto di una cella quanto di un'ossessione che si è fatta destino. Yusuf, rilasciato dopo dieci anni di carcere, emerge in un mondo che non riconosce, un fantasma che vaga in cerca di un ancoraggio. Lo trova, o crede di trovarlo, in una squallida pensione di Izmir, un non-luogo che è il vero cuore pulsante – e necrotico – del film. Questa pensione non è un semplice fondale, è un personaggio a sé stante: un girone dantesco per anime mediocri, un labirinto di corridoi e stanze dove ogni porta si apre non su un nuovo spazio, ma su una diversa permutazione della stessa, identica disperazione.

È qui che Yusuf, spettatore silenzioso e nostra porta d’accesso a questo inferno, incontra la coppia scoppiata che motorizza la narrazione: Bekir e Uğur. E se Yusuf è il nostro Virgilio catatonico, loro sono la Francesca e il Paolo di questa bufera terrena, uniti non dall'amore ma da un legame patologico che ha da tempo trasceso ogni logica affettiva. Bekir, un superbo Haluk Bilginer in una performance che scava nell'abisso della dignità umana, vive unicamente per Uğur. La sua non è devozione, è una forma di auto-annientamento, una schiavitù volontaria che lo spinge a seguirla per tutta la Turchia, a tollerare ogni umiliazione, a finanziare la sua vita da cantante di locali malfamati e prostituta occasionale. Uğur, dal canto suo, vive per un altro uomo, un criminale di nome Zagor, un'entità quasi mitologica che aleggia sul film come un Godot della malavita, la cui assenza è più potente di qualsiasi presenza. Si crea così una catena di Sant'Antonio del desiderio non corrisposto, un triangolo impossibile dove l'amore non è una forza creatrice ma un buco nero che divora ogni cosa.

Il riferimento più immediato, e quasi obbligatorio, per decifrare il cinema di Demirkubuz è Fëdor Dostoevskij. "Masumiyet" non è solo dostoevskiano nello spirito; è una trasposizione quasi letterale di quella particolare febbre dell'anima che pervade le pagine di "L'idiota" o delle "Memorie dal sottosuolo". I personaggi di Demirkubuz sono "uomini del sottosuolo" turchi, la cui lucidità nel diagnosticare la propria malattia non fa che aggravarne i sintomi. Parlano, si confessano, si svelano in lunghi monologhi che squarciano il velo del realismo per approdare a una verità più profonda, quasi teatrale. E qui, bisogna fermarsi sulla scena madre del film, forse uno dei più grandi monologhi del cinema moderno. Seduto a un tavolo, davanti a un piatto di cibo che non toccherà, Bekir si lancia in un torrenziale flusso di coscienza di quasi dieci minuti, filmato in un unico, soffocante piano sequenza. È il suo "j'accuse" contro il destino, contro Dio, contro l'amore stesso, che descrive non come un sentimento ma come una "sporcizia" che gli si è attaccata addosso e che non riesce a lavare via. In questa scena epocale, Bilginer non recita: officia un rito di auto-immolazione verbale, esponendo con una lucidità terrificante la logica perversa della sua ossessione. È un momento che trascende il cinema, diventando pura letteratura filmata, un pezzo di bravura che giustificherebbe da solo la visione del film e che evoca la disperazione esistenziale di un personaggio di Bergman incastrato nel corpo di un uomo qualunque, in una bettola di una città di provincia turca.

"Masumiyet" arriva in un momento cruciale per il cinema turco. Siamo alla fine degli anni '90, e una nuova generazione di autori, tra cui Nuri Bilge Ceylan, sta ridefinendo l'identità cinematografica nazionale. Ma se Ceylan guarda a Cechov e all'ampiezza metafisica dei paesaggi anatolici, Demirkubuz si chiude negli interni, nei bassifondi urbani, e guarda a Dostoevskij e al noir. Il suo stile è scarno, anti-estetico. La fotografia è quasi documentaristica, i colori smorti, le inquadrature fisse, claustrofobiche. Questa scelta non è sciatteria, ma una precisa dichiarazione poetica: non c'è via di fuga, né per i personaggi né per lo spettatore. Siamo intrappolati con loro in quelle stanze d'albergo, costretti a respirare la loro stessa aria viziata, a sentire il peso del loro tempo immobile. Il film si spoglia di ogni orpello per arrivare al nucleo incandescente del dramma umano. In questo, Demirkubuz si avvicina più a un Fassbinder, con la sua spietata analisi delle dinamiche di potere nelle relazioni interpersonali, che non ai suoi contemporanei turchi. Come nei migliori melodrammi fassbinderiani, l'amore è un'economia perversa di dominio e sottomissione, e la felicità un'impossibilità ontologica.

Il titolo, "Innocenza", è la suprema, crudele ironia del film. Dove risiede l'innocenza in questo mondo? Forse in Çilem, la figlia sordomuta di Uğur, testimone silenziosa di questo sfacelo. La sua condizione fisica diventa metafora di un'intera condizione umana: l'impossibilità di comunicare, di ascoltare e di essere ascoltati. Çilem è l'unica a cui è concesso di non partecipare al gioco al massacro verbale degli adulti, ma il suo silenzio non è purezza; è un vuoto che riflette e amplifica la cacofonia disperata che la circonda. O forse l'innocente è Yusuf, la cui passività lo rende quasi un foglio bianco su cui si proiettano le passioni altrui. Ma il suo non agire è una scelta, una forma di complicità che lo rende altrettanto colpevole della propria paralisi. L'innocenza, suggerisce Demirkubuz, non è l'assenza di colpa, ma forse la condizione di chi non ha ancora contratto la malattia dell'ossessione, una malattia che nel suo universo è contagiosa come la peste.

In ultima analisi, "Masumiyet" è un film sulla natura della libertà. Yusuf esce di prigione per entrare in una prigione più grande, quella delle dinamiche umane. Bekir è libero di andarsene in ogni momento, ma è incatenato a Uğur da un vincolo più forte di qualsiasi sbarra d'acciaio. Uğur è schiava del fantasma di Zagor. Sono personaggi fatalisti, che hanno abdicato al proprio libero arbitrio e si sono consegnati a una forza superiore che chiamano "amore" ma che assomiglia di più a una condanna a vita. Il finale, ciclico e devastante, non offre catarsi né redenzione, ma solo la conferma che certe storie sono destinate a ripetersi all'infinito, come un disco rotto che suona la stessa, malinconica canzone. È un'opera spietata, esigente, che nega ogni facile consolazione. Non si "gode" di un film come "Masumiyet". Lo si subisce, ci si lotta, e se ne esce cambiati, con la sgradevole ma necessaria consapevolezza che a volte l'inferno non è un luogo ultraterreno, ma una stanza d'albergo a poco prezzo dove l'unica cosa che ci tiene in vita è la stessa che ci sta uccidendo. Un capolavoro assoluto, tetro e magnifico.

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