Milano Calibro 9
1972
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Regista
Scerbanenco crea, Di Leo dispone, Moschin incarna.
Si sintetizza così quest’opera in cui Noir, Thriller e Gangster Movie fondono i loro stilemi generando un archetipo che avrebbe poi identificato un genere ben definito: il poliziesco all’italiana, tanto amato in seguito da registi come Tarantino e Rodriguez. Ma ridurre Milano Calibro 9 a una mera sintesi di generi sarebbe un peccato capitale, poiché esso si erge a pietra angolare di un filone cinematografico, il poliziottesco, che seppe catturare e riflettere, con brutale efficacia, le paranoie e le tensioni di un'Italia sospesa tra il boom economico e i venti di piombo. Non fu solo una fusione, ma una distillazione: Di Leo prese gli archetipi del noir americano, la tensione del thriller europeo e la cruda violenza del gangster movie, e li calò in un contesto sociale italiano in ebollizione, restituendo un affresco livido e perturbante. L'ammirazione di Quentin Tarantino, evidente nel tributo in Pulp Fiction (la valigetta, l'anti-eroe silenzioso, una certa dialettica tra ironia e brutalità) o nell'estetica cool di Jackie Brown, e di Robert Rodriguez, che ha mutuato da Di Leo l'energia pulp e la stilizzazione della violenza, non è un caso, ma il riconoscimento di una lezione di cinema appresa e reinterpretata.
La storia è imperniata sull’omonima raccolta di racconti di Scerbanenco, precisamente sul racconto “Stazione Centrale ammazzare subito”. È la storia di un malavitoso, Ugo Piazza, che terminati 3 anni di carcere, viene sospettato dagli ex compagni della Banda di essersi intascato un consistente malloppo. Inizierà la sua odissea per affrancarsi dall’accusa e per trovare i veri responsabili. L'adattamento di Di Leo non è pedissequo, ma una geniale rielaborazione che cattura l'essenza della prosa scerbanenchiana – un'implacabile fatalità, un'alienazione metropolitana e una visione profondamente cinica dell'animo umano – amplificandone la violenza esistenziale e l'urgenza narrativa. Scerbanenco, maestro del giallo "alla milanese", aveva già dipinto una metropoli fredda e indifferente, ma Di Leo le infuse una vita propria, pulsante di traffico, rumore e criminalità organizzata che evolveva, sofisticandosi oltre i codici d'onore del meridione.
Celebre e precognitiva la battuta: “Se va avanti così dovranno creare l’antimafia anche a Milano”. Questa frase, pronunciata con disincantata lucidità, trascende la sua funzione dialogica per diventare un monito, una profezia quasi documentaristica. Rievoca l'effervescenza criminale che negli anni '70 stava trasformando Milano da capitale economica a crocevia di traffici illeciti e nuove, spietate organizzazioni, anticipando di decenni la piena consapevolezza del radicamento mafioso al Nord. È un lampo di genio che lega indissolubilmente la narrazione fittizia alla cronaca di un paese in mutamento, dove il crimine non era più un fenomeno marginale o esclusivamente geografico, ma una metastasi che invadeva il tessuto sociale.
Ottimo il montaggio che conferisce un ritmo serrato alla narrazione. Ma la maestria di Di Leo va ben oltre il mero pacing. La sua regia è un'esperienza sensoriale: in ogni fotogramma si riconosce precisa la mano del regista nel restituire le atmosfere sordide della vicenda unitamente ad un’attenzione didascalica per la cornice milanese. Di Leo trasforma Milano in un personaggio a pieno titolo, con i suoi vicoli oppressivi, i quartieri moderni asettici e le fabbriche che fumano, conferendo alla città un'identità visiva potente. La macchina da presa è nervosa, quasi ossessiva, si muove fluidamente tra inseguimenti mozzafiato e primi piani serrati che scavano nei volti segnati dei protagonisti. La violenza non è mai gratuita, ma espressione di un mondo senza redenzione, sebbene stilizzata con un'eleganza quasi coreografica che diverrà cifra distintiva del genere. L'uso innovativo della musica, con la colonna sonora di Luis Bacalov che spazia dal jazz-funk alla psichedelia rock dei mitici Osanna – la cui "Tema di Milano Calibro 9 (Gangster Story)" è un'icona del cinema italiano – eleva l'esperienza, amplificando il senso di inquietudine e di ineluttabilità.
Menzione finale per Moschin e il suo sguardo glaciale, buono per sedurre ballerine e fermare pallottole al volo. Gastone Moschin incarna Ugo Piazza con una stoica e quasi buddhista impassibilità che lo rende indimenticabile. Il suo volto, scarno e duro, è una tela su cui si proietta una profonda stanchezza esistenziale. Ugo non è l'eroe che cerca redenzione, né il villain che prospera nel male; è un uomo incastrato in un meccanismo perverso, che attraversa un inferno personale con una dignità quasi muta. La sua performance è un capolavoro di sottrazione, dove ogni piccolo gesto, ogni variazione nel suo sguardo, comunica volumi di dolore, paranoia e una lucida consapevolezza della propria condanna. Accanto a lui, un cast di prim'ordine contribuisce a forgiare la leggenda: Barbara Bouchet, nel ruolo di Nelly Bordon, incarna una femme fatale sì, ma con una fragilità e un'indipendenza che la elevano dal mero stereotipo; Mario Adorf, nei panni del brutale Rocco Musco, è la personificazione della violenza cieca e irrazionale; e Philippe Leroy, come il "Chinaman", apporta un tocco di elegante, quasi filosofica, crudeltà, fornendo un contrappunto intellettuale alla forza bruta. Milano Calibro 9 non è solo un film di genere; è un saggio viscerale sulla fiducia tradita, sulla natura corrotta del potere e sull'illusione della giustizia in un mondo che ha smarrito ogni bussola morale, un caposaldo che continua a parlare con voce sorprendentemente attuale.
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