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Mio Zio

1958

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Dopo cinque anni dalla sua comparsa ne Le Vacanze di Monsieur Hulot (1953), ritorna l'ineffabile Monsieur Hulot in questo quarto, e forse più ambizioso, film di Jacques Tati. Presentato a Cannes nel maggio del '58, dove vinse il Premio Speciale della Giuria, Mio Zio divenne immediatamente un instant classic, un'opera venerata da generazioni di cinefili che ne amarono il garbo di una comicità senza strepiti né volgarità. Ma relegarlo a semplice commedia, per quanto elegante, sarebbe un errore critico madornale. Oltre a questo aspetto di assoluta levità, il film si fa apprezzare per una serie di tematiche e trovate che lo elevano a capolavoro. Primo fra tutti il tema della critica alla modernità, la stigmatizzazione dei ritmi frenetici e preordinati di una società prefabbricata che già avevamo trovato nel Chaplin di Tempi Moderni. Se il Charlot di Chaplin, però, lottava disperatamente contro la macchina industriale disumanizzante, l'Hulot di Tati si trova a fronteggiare un nemico più subdolo e insidioso: la tirannia del design e del comfort domestico. La critica qui è più sottile e feroce, sospinta dai venti di un'ironia gentile. Tati mette in luce le contraddizioni più grottesche del modernismo, la sua pretesa di efficienza che si traduce in un'assurda complicazione della vita. Dipinge una borghesia ingessata dai ritmi lavorativi, compressa in dialoghi svuotati di ogni umanità, travolta da un'ansia di progresso e tecnologismo che devasta ogni interazione sociale al suono stridente di improbabili cicalini e di interruttori multifunzione. Il tutto è corroborato da accorgimenti scenici che fanno di questo film un vero e proprio caposaldo del cinema satirico: la serranda elettrica del garage messa in moto da cellule fotoelettriche che imprigiona i coniugi Arpel; lo zampillo di una fontana a forma di pesce che viene messo in funzione solo in presenza di ospiti e che, dopo essere stato traviato da Hulot, sprizza fango e petrolio; gli oblò della villa ipermoderna degli Arpel che sembrano giganteschi occhi che nella notte spiano i movimenti furtivi di Hulot, con le pupille costituite dalle teste dei due Arpel che si affacciano ai vetri.

I coniugi Arpel sono orgogliosi della loro magione ipermoderna, la Villa Arpel, dotata di ogni comfort, ultrageometrica e minimalista, plastificata e automatizzata. Questa non è solo una casa, è una tesi di architettura, una parodia brillante e spietata del modernismo dell'International Style e delle utopie abitative di un Le Corbusier. È una "macchina per abitare" che ha dimenticato di includere l'essere umano nelle istruzioni. Questo tecno-mostro sembra sfidare le vecchie case di una Parigi ancora imprigionata nel periodo postbellico, quartieri polverosi e decadenti che in realtà esplodono di vitalità, di gente che si saluta per strada discutendo animatamente e vivendo la città come autentico luogo d'incontro e aggregazione. Il fratello della signora Arpel, Monsieur Hulot, è un bislacco signore di mezza età con il suo eterno impermeabile e la sua pipa, che abita un attico incastonato in uno di questi antichi rioni. Il suo appartamento è collocato sul tetto di un vecchio edificio che, per essere raggiunto, lo costringe ad arrampicarsi e a oltrepassare decine di ambienti, in una sorta di percorso ad ostacoli che lo spettatore segue estasiato mediante un'inquadratura fissa e quasi teatrale dell'edificio, mentre Hulot compare in ogni recesso, finestra, androne e corridoio fino a raggiungere la meta agognata. Quella non è una casa, è un villaggio verticale, un ecosistema di interazioni umane. Le due case sono subito poste in stridente contrasto; è in fondo la dicotomia di una città che convive tra passato e futuro. Hulot è lo zio di Gérard, il figlioletto degli Arpel, che spesso passa a prendere per portare a scuola scorrazzando sulla sua vecchia bici a motore. Il bambino ama suo zio e quelle fantastiche deviazioni da una vita altrimenti preordinata e perfetta. Il loro legame è una silenziosa e gioiosa cospirazione contro il mondo degli adulti, un mondo dove persino il giardino è un percorso geometrico su cui è proibito camminare. Ma i coniugi Arpel non amano lo stile di vita di Hulot e tentano in ogni modo di farlo rinsavire, di "normalizzarlo", cercandogli una moglie o trovandogli un impiego nella ditta del Pater Familias, che si occupa, ironia della sorte, di derivati plastici.

Leggerezza e ironia si è detto, ma anche sorrisi che da silenziosi e furtivi divengono sguaiati in un'opera intelligente, allegorica e divertente. Jacques Tati si conferma padre di un cinema che, prendendo alla lettera l'antico adagio latino "Castigat ridendo mores", mette in opera un'arte quasi silenziosa fatta di corporeità e naturalezza. La sua comicità è architettonica e democratica. A differenza di Chaplin, che dominava la scena, Tati raramente usa il primo piano. Preferisce inquadrature ampie, quasi dei tableaux vivants, dove Hulot è solo uno degli elementi in gioco. Affida allo spettatore il compito di esplorare l'immagine, di scoprire la gag che si svolge in un angolo dello schermo. È l'erede di Buster Keaton per il modo in cui la sua comicità nasce dallo scontro tra un individuo imperturbabile e un ambiente complesso e meccanizzato, ma sostituisce il caos pericoloso di Keaton con un'assurdità gentile e disfunzionale. Un film che ancora oggi diverte e affascina lo spettatore.

La vis comica di Tati, sebbene radicata nella tradizione del cinema muto, possiede una sensibilità che potremmo definire, con un piccolo azzardo intellettuale, postmoderna. L'umorismo di Mio Zio nasce da una profonda sfiducia nella grande narrazione del Progresso. Tati mette in scena il fallimento dell'utopia modernista: la cucina ultra-tecnologica è scomoda e produce cibi dai colori innaturali, il salotto di design è un luogo in cui non ci si può rilassare, la vita automatizzata è una sequenza di piccoli, irritanti malfunzionamenti. È una decostruzione gentile ma implacabile del mito della salvezza tecnologica. Inoltre, il film è ossessionato dalle superfici, un tema caro al postmodernismo. Gli Arpel sono definiti non da ciò che sono, ma da ciò che possiedono e da come appaiono. La loro vita è una performance di modernità per gli ospiti. Tati usa il suono in modo geniale per sottolineare questa artificialità: il mondo moderno è un concerto di ronzii, scatti e sibili meccanici, mentre il mondo di Hulot è pieno di suoni umani, di cinguettii e di musica. Mio Zio è, in definitiva, un'opera di una dolcezza e di un'intelligenza sconfinate, un monito gentile contro la nostra tendenza a confondere il progresso con la felicità.

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