Lo Specchio
1975
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Regista
Un ingrato compito per il recensore tentare di fermare con le aride parole ciò che questo film dipana in forma aerea e con impalpabile alito elegiaco. È un’opera che elude la cattura, simile a un sogno appena svegli: i suoi contorni sono sfumati, le sue emozioni persistenti, e il suo significato si sedimenta nel profondo ben oltre la logica razionale.
Se un film può essere un'anatomia dell'anima, "Lo Specchio" ne è la più audace e lacerante disamina. Si tratta di un’opera autobiografica, sì, ma ben oltre la mera rievocazione cronologica; qui Tarkovsky non tanto traccia un bilancio della propria vita, quanto piuttosto ne disseziona la materia prima, ripercorrendo l’infanzia con la sorellina e la madre, in un contesto rurale e quasi primigenio, mentre il padre abbandona la famiglia per sparire nell’oblio, lasciando un vuoto che diviene la vera, invisibile ossatura del racconto. La struttura non lineare, intrisa di sequenze oniriche e di salti temporali audaci, fa di questa pellicola un’esperienza più vicina alla psicanalisi o a una seduta ipnotica che a una narrazione convenzionale, portando lo spettatore a confrontarsi con la fluidità della memoria e con l’inafferrabilità del passato.
I personaggi si confondono e si dissolvono l’uno nell’altro, in un caleidoscopio di volti che si sovrappongono e si riflettono, come l'attrice Margarita Terekhova che incarna sia la madre che la moglie del protagonista, quasi a suggerire una circolarità del destino o un’archetipica reiterazione delle figure femminili centrali nella vita dell'autore. Questa fusione identitaria, tipica dei meccanismi del sogno e della reminiscenza, esalta la natura intrinsecamente soggettiva del film, rendendo i confini tra realtà e ricordo, tra sé e l’altro, porosi e labili. In questo flusso magmatico, potenti scorrono i versi poetici che fanno da anima all’intera impalcatura semantica del film, non solo accompagnando le immagini ma fornendo loro un'ulteriore dimensione di risonanza emotiva e filosofica, come un contrappunto lirico che eleva la narrazione a un livello quasi liturgico.
Poi con uno stacco, quasi un respiro sospeso nell'etere del tempo, la fase adulta si palesa quando l’autore si separa dalla moglie e dal figlio: il dolore del distacco si materializza in immagini di sottile, quasi impercettibile sofferenza, riflettendo la medesima ferita originaria dell'abbandono paterno. È un dolore che non si urla, ma si manifesta nel silenzio delle stanze, nel bagliore delle candele, nel levigato spiritualismo che caratterizza la routine quotidiana, una ricerca di trascendenza nel banale per esorcizzare la fragilità umana. Di nuovo una sorta di appannamento nella rievocazione dei personaggi e delle loro fumose identità, come se il ricordo stesso, nel tentativo di afferrare il passato, lo rendesse ancora più diafano, più lontano, una strategia difensiva della psiche di fronte alla perdita e all'inesorabilità del tempo che tutto cancella. In queste sezioni, Tarkovsky sfiora i vertici della malinconia bergmaniana, pur mantenendo una grazia visiva che lo distanzia dalla crudezza psicologica del maestro svedese, avvicinandolo piuttosto alla contemplazione meditativa di Ozu o alla rarefazione eterea di Robert Bresson.
Il regista inserisce nel tessuto narrativo, con una scelta di sublime e rara intelligenza artistica, poesie di suo padre Arsenij, figura carismatica e al contempo assente, la cui voce fuori campo diventa un ponte generazionale tra l'arte paterna e la visione filmica del figlio. Celebre è la composizione “Primi Incontri”, un vertice di lirismo e presagio, a cui Tarkovsky abbina immagini di routine quotidiana che creano con il flusso poetico una sorta di malìa riverberante, un dettato ipnotico e sensuale che sale dall’anima, una sinestesia che fonde parola e visione in un unico, ininterrotto battito cardiaco. “Quando il destino ci seguiva passo a passo, come un pazzo con il rasoio in mano,” recita la voce fuori campo, e la donna a cui il poeta dedica questi versi si ferma, quasi ad ascoltare queste parole provenienti da un remoto orizzonte, un monito, una confessione, un'eco di un passato ineludibile. Questa linea in particolare, con la sua immagine violenta e inesorabile, cristallizza la sensazione di un fato preordinato che incombe, una fatalità che lega le esistenze, i traumi e le scelte, al di là della volontà individuale. La scelta di alternare il bianco e nero con segmenti a colori, insieme all'inserimento di filmati d'archivio che rievocano eventi storici (la Guerra Civile Spagnola, il lancio di un pallone aerostatico), non è un mero virtuosismo stilistico, ma un meccanismo per ancorare il flusso del ricordo personale a una dimensione collettiva e storica, suggerendo come la biografia individuale sia inestricabilmente legata alla grande narzoazione della Storia, e come il ricordo, anche il più intimo, sia sempre una costruzione complessa e stratificata.
Un film magnifico, che non può e non deve essere circoscritto ad una mera sintesi né essere inscatolato in qualche processo speculativo, poiché ogni tentativo di razionalizzazione ne smusserebbe la forza evocativa e ne tradirebbe la natura elusiva. La sua grandezza risiede proprio nella sua inclassificabilità, nella sua capacità di resistere a ogni tentativo di categorizzazione, proponendosi come un'esperienza sensoriale e spirituale prima ancora che narrativa. Come le opere di Andréï Rublev, il cui spirito sembra pervadere alcune delle sue inquadrature più contemplative, "Lo Specchio" non si spiega, ma si contempla. È un monolite di bellezza e mistero, una khora platonica in cui il mondo si riflette senza mai svelarsi del tutto.
Semplicemente una poesia per immagini che scorre ammaliando e commuovendo, un flusso di coscienza filmato che si srotola con la logica della memoria e del sogno, dove il tempo non è lineare ma circolare, dove ogni immagine è carica di simboli universali (il fuoco, l'acqua, il vento, il latte) che trascendono la mera aneddotica personale per toccare corde profonde dell'inconscio collettivo.
Non chiediamo di più ad un film, e forse, in un’epoca di sovraccarico informativo e di narrazioni didascaliche, è proprio questo invito all'abbandono, alla pura ricezione estetica ed emotiva, a rendere "Lo Specchio" un'opera eternamente necessaria, un faro nella nebbia dell'eccessiva chiarezza.
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