Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Moolaadé

2003

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Se c'è un termine che il cinema contemporaneo ha svuotato, è "militante". Lo usiamo per descrivere qualsiasi opera che osi avere un'opinione, un debole sussulto di coscienza sociale. Ma per capire cosa significhi veramente cinema militante – non come propaganda, ma come atto filosofico, come gesto di necessaria belligeranza estetica – bisogna tornare a Ousmane Sembene. Moolaadé (2004), il suo ultimo, fiammeggiante capolavoro, non è un film: è un testamento, un'arma e un incantesimo. È il J'accuse di un artista che, a ottantun anni, aveva ancora l'urgenza di un esordiente e la rabbia lucida di un profeta.

Sembene, il "Griot" del cinema africano, l'uomo che ha letteralmente spostato la sua arte dal romanzo (francese) alla pellicola (Wolof) per poter parlare direttamente al suo popolo, non ci offre una visione pacificata dell'Africa. Ci sbatte in faccia un villaggio del Burkina Faso (simbolicamente isolato, un microcosmo) e ci costringe a guardare. Ma cosa? Non la povertà, non la fame, non i cliché dell'occhio coloniale che il cinema occidentale usa per auto-assolversi. Sembene ci mostra il campo di battaglia della Tradizione. E la guerra si combatte su un terreno impensabile: il corpo delle donne.

Il film si apre con un atto di fuga. Quattro bambine scappano per evitare la "purificazione", il rituale dell'escissione genitale (FGM). Trovano rifugio presso Collé Ardo Gallo Sy, la seconda moglie di un anziano del villaggio. E qui, Sembene innesca la sua bomba semiotica. Collé non protesta con un megafono. Non cita la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Compie un gesto molto più potente e, per la struttura di potere del villaggio, molto più scandaloso: invoca il Moolaadé.

Il Moolaadé è un'antica forma di protezione spirituale, un santuario. Collé stende una corda colorata davanti alla sua porta. Questa corda, un pezzo di spago, diventa una frontiera invalicabile, un "safe space" magico-religioso. Finché le bambine restano dietro quella corda, nessuno può toccarle. La brillantezza assoluta di Sembene sta qui: non contrappone la "modernità" occidentale (i diritti umani) alla "barbarie" africana (la FGM). Sarebbe stato facile, paternalistico e falso. Invece, Sembene fa scontrare la Tradizione con sé stessa. Collé usa un potere ancestrale, il Moolaadé (la protezione), per combattere un altro potere ancestrale, la Salindana (la purificazione/mutilazione). È una mossa da maestro di judo intellettuale. Non rifiuta la sua cultura; la usa per esporne le contraddizioni mortali.

Esteticamente, Moolaadé è un Kammerspiel a cielo aperto, ma dipinto con la violenza cromatica del Technicolor. Sembene rifiuta l'estetica del "documentarismo sgranato" che spesso associamo al cinema del reale. Il direttore della fotografia Dominique Gentil immerge la scena in colori saturi: i boubou (le vesti) delle donne sono arsenali cromatici, bandiere di sfida contro il color ocra, polveroso e maschile, del villaggio e della moschea. Questa non è una scelta decorativa; è una dichiarazione politica. L'opulenza visiva contrasta volutamente con la secchezza morale del dibattito, suggerendo che la vita, la bellezza e la vitalità (incarnate dalle donne) sono dalla parte di Collé, mentre la Salindana è un rito di morte, grigio e sterile.

Il film è una straordinaria allegoria sulla struttura del potere. I depositari della tradizione – gli anziani, l'Imam – non sono "cattivi" nel senso hollywoodiano. Sono terrorizzati. La loro autorità si basa su un sistema chiuso, un consenso che non può essere messo in discussione. La sfida di Collé crea un bug nel sistema. La sua "No" è un atto di tale portata che minaccia di far crollare l'intero edificio sociale. E cosa temono gli uomini più di ogni altra cosa? Non l'ira di Dio. Temono le radio.

Qui Sembene inserisce il suo secondo cavallo di Troia: la modernità, non come ideologia, ma come informazione. Le piccole radio portatili sono le vere antagoniste degli anziani. Sono la voce del mondo esterno che penetra le mura del villaggio, l'eco di altre possibilità. In una delle scene più potenti e grottesche, gli uomini del villaggio inscenano un "radio-cidio": una pira su cui vengono bruciati tutti gli apparecchi, sequestrati alle donne. È un atto di pura disperazione iconoclasta. Gli anziani, che controllano il logos (la parola orale, il sermone), non possono tollerare un medium che non possono controllare. Bruciano le radio come si bruciavano le streghe, perché capiscono che l'informazione è una forma di potere che rende obsoleto il loro. Il Moolaadé protegge i corpi; le radio liberano le menti.

Moolaadé arriva nel 2004, un momento cruciale per il cinema africano. Il "cinema dei padri" (quello di Sembene, di Med Hondo) stava lasciando il passo all'esplosione digitale, più veloce ed economica, di Nollywood. La Nigeria stava sfornando migliaia di ore di video direct-to-consumer, storie di amore, stregoneria e affari, che conquistavano il continente. Sembene, in confronto, sembrava un dinosauro: un marxista ostinato che girava ancora in 35mm e credeva nel cinema come strumento pedagogico. Ma Moolaadé non è pedagogia; è dinamite. Mentre Nollywood rifletteva (e spesso rinforzava) le ansie e i sogni del capitalismo neoliberale, Sembene faceva ciò che ha sempre fatto: usava il cinema per dissezionare le strutture del potere.

Il suo cinema, qui più che mai, è profondamente Brechtiano. Sembene non vuole la nostra empatia (un'emozione passiva); vuole la nostra comprensione (un atto cognitivo). Collé non è una santa; è testarda, difficile, a tratti arrogante. Ma è un'eroina nel senso più puro: è colei che agisce secondo una necessità morale interna, anche a costo della propria distruzione. Sembene ci costringe a vedere il "perché" dietro le azioni, non solo a "sentire" per i personaggi. Non siamo a un feel-good movie sulla sorellanza. Siamo di fronte a una complessa negoziazione politica in cui la posta in gioco è la vita.

Il finale è un rogo. Ma non è un rogo di disperazione. È la Salindana, la capanna dove vengono custoditi i coltelli rituali e i simboli della mutilazione, che brucia. È il fuoco che purifica la tradizione, non i corpi delle bambine. Mentre le fiamme si alzano, le donne, guidate da Collé (che nel frattempo è stata pubblicamente frustata), si liberano. È l'Apocalisse, nel senso etimologico di "disvelamento". Sembene, il vecchio leone, non ci dà un lieto fine. Non ci dice che il problema è risolto. Ci mostra, semplicemente, che la resistenza è possibile.

Ousmane Sembene morirà tre anni dopo. Moolaadé non è solo il suo ultimo film; è la sua ultima parola. Ed è una parola, come il Moolaadé stesso, che una volta pronunciata non può essere ritirata. È un atto di fede assoluta nel potere del cinema di non limitarsi a riflettere il mondo, ma di avere l'audacia, la rabbia e l'amore necessari per cambiarlo.

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