Mysterious Skin
2005
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Regista
Un velo di pioggia notturna su un parabrezza, le luci al neon che si liquefano in striature cromatiche, e nell'aria la chitarra riverberata dei Cocteau Twins. L'incipit di Mysterious Skin è una dichiarazione d'intenti, un'immersione immediata in quella nebbia sonora ed emotiva che Gregg Araki, fino a quel momento alfiere di un cinema punk-rock nichilista e apocalittico, sceglie come unico linguaggio possibile per raccontare l'indicibile. Abbandonata l'estetica sfacciata e anfetaminica della sua "Teenage Apocalypse Trilogy", Araki si cala negli abissi di un'America suburbana che non è più il teatro di sesso e violenza esibiti, ma il luogo silenzioso di un trauma che si fa palinsesto, una scrittura nascosta sotto la superficie della memoria. Il film è un dittico, un'anima scissa in due corpi che reagiscono alla medesima ferita originaria con strategie di sopravvivenza diametralmente opposte, quasi a incarnare due diverse teorie della psicanalisi in un disperato cortocircuito esistenziale.
Da una parte c'è Brian Lackey (un etereo e perfetto Brady Corbet), convinto a otto anni di aver subito un'abduction aliena che gli ha sottratto cinque ore di vita. La sua narrazione è un'opera di fantascienza intima, un disperato tentativo della mente di costruire una mitologia cosmica per dare un senso a un vuoto che terrorizza. Brian è un piccolo Fox Mulder del Kansas, ossessionato dai cerchi nel grano e dagli incontri del terzo tipo, ma il suo "I want to believe" non è rivolto al cielo, bensì al proprio passato. La sua ricerca della verità è un viaggio in un'estetica da videoclip shoegaze, immersa nelle partiture celestiali di Harold Budd e Robin Guthrie: un mondo ovattato, sognante, dove la fotografia sovraesposta e i lenti movimenti di macchina trasformano il dolore in una sublime e perturbante malinconia. È un meccanismo di difesa elevato ad arte, un'amnesia che si fa folklore personale. La sua storyline sembra quasi un film di fantascienza diretto da un David Lynch che abbia smarrito la via per Twin Peaks e sia finito in una cittadina del Midwest ancora più anonima e sinistra, dove il Male non si annida nei boschi ma sul campo da baseball.
Sull'altro lato dello specchio, come un'immagine negativa, c'è Neil McCormick (un Joseph Gordon-Levitt la cui performance è una di quelle che ridefiniscono una carriera). Neil ricorda tutto. Anzi, ha fatto di quel ricordo un'arma, un'identità, una professione. È diventato un prostituto, un cinico angelo caduto che vende il proprio corpo a uomini più anziani, cercando forse in ogni incontro una replica perversa e controllata dell'abuso subito, un modo per diventare padrone del trauma piuttosto che sua vittima. Il suo mondo è crudo, illuminato da luci fredde e spietate, privo di qualsiasi filtro onirico. Se Brian fugge nella fantasia, Neil si immerge nel sordido con una lucidità quasi suicida. È un personaggio che sembra uscito da un romanzo di Dennis Cooper o da un film di Gus Van Sant, un eroe picaresco della desolazione che attraversa il paesaggio umano come un fantasma consapevole. La sua vulnerabilità non è nascosta dietro l'ingenuità, ma corazzata da una patina di indifferenza che si crepa solo in rari, devastanti momenti. Gordon-Levitt gli dona uno sguardo che contiene un intero universo di dolore e sfida, un'economia di gesti che comunica più di mille dialoghi.
Araki, adattando il romanzo omonimo di Scott Heim, compie un miracolo di equilibrio. Non giudica nessuno dei due percorsi. Anzi, li intreccia visivamente e narrativamente con una maestria che rivela una maturità artistica sorprendente. Il film è la cronaca di due solitudini che viaggiano su binari paralleli destinati a un'inevitabile e catastrofica collisione. La grandezza di Mysterious Skin risiede proprio nella sua capacità di trattare un tema così abietto senza mai cadere nel voyeurismo, nel film di denuncia sociale o nel melodramma. È un'opera profondamente estetica, nel senso più alto del termine: usa la forma per esplorare la sostanza. La colonna sonora, che oltre a Budd e Guthrie include Slowdive e The Jesus and Mary Chain, non è un semplice sottofondo, ma il tessuto connettivo emotivo del film. È il suono della dissociazione, una bellezza narcotizzante che avvolge l'orrore, permettendo allo spettatore di guardare ciò che altrimenti sarebbe insostenibile. È la stessa funzione che la narrazione aliena ha per Brian: un filtro estetico per sopportare la verità.
Il film si inserisce in un filone particolare del cinema americano indipendente dei primi anni 2000, quello che ha iniziato a fare i conti con i traumi della generazione precedente, esplorando le crepe sotto la facciata della normalità suburbana. Se Donnie Darko usava il paradosso temporale per parlare dell'alienazione adolescenziale, Mysterious Skin usa il rapimento alieno come metafora definitiva della violazione del corpo e della mente. È una sorta di gotico americano aggiornato all'era degli UFO, dove il castello infestato non è una magione decrepita ma la psiche di un bambino. In questo senso, il film dialoga a distanza con la letteratura di J.G. Ballard, per cui lo "spazio interiore" era il vero e unico paesaggio da esplorare, un territorio segnato da patologie e desideri inconfessabili che si proiettano sulla realtà esterna, deformandola. L'alieno, per Brian, è l'unica figura abbastanza "altra" da poter contenere l'enormità di un atto inumano.
La regia di Araki è precisa, quasi chirurgica nel suo lirismo. Compone inquadrature che ricordano la solitudine metafisica dei dipinti di Edward Hopper, ma immerse in una luce sognante e iperrealista. C'è una scena in cui Neil, a New York, guarda un aereo passare nel cielo, e per un attimo i due mondi, quello fantascientifico di Brian e quello brutalmente terrestre di Neil, sembrano quasi toccarsi. Sono momenti di pura grazia cinematografica, in cui il meta-testo del film affiora con delicatezza: entrambi i ragazzi, in fondo, guardano al cielo in cerca di qualcosa. Brian cerca una spiegazione, Neil forse una via di fuga.
Il finale, quando i due finalmente si incontrano e la memoria di Brian viene brutalmente ricomposta, è uno dei momenti più strazianti della storia del cinema. Non c'è catarsi, non c'è guarigione facile. C'è solo il riconoscimento di un dolore condiviso, un'epifania oscura che non libera ma lega indissolubilmente. La "pelle misteriosa" del titolo è quella membrana fragile che chiamiamo identità, tessuta con i fili dei ricordi, delle bugie che ci raccontiamo e delle verità che non possiamo affrontare. Quando quella pelle viene lacerata, ciò che resta è una vulnerabilità assoluta. Araki non offre risposte né facili consolazioni. L'ultima inquadratura non suggerisce un nuovo inizio, ma la terribile consapevolezza di una fine che è avvenuta molto tempo prima, in un pomeriggio d'estate, e che continuerà a ripetersi all'infinito nel silenzio delle loro vite. È un capolavoro spietato e bellissimo, un poema audiovisivo sulla persistenza del trauma, un film che si insinua sotto la pelle e vi rimane, misterioso e indelebile.
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