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Napoleone

1927

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Regista

Napoléon di Abel Gance è un sogno febbrile della Storia, un delirio visionario di quasi sei ore che tenta di catturare la biografia di un personaggio chiave della Storia, ma anche l'anima di un'epoca. Visto oggi, a quasi un secolo dalla sua uscita nel 1927, non appare come un'opera datata, ma come un artefatto proveniente da un futuro del cinema che non abbiamo ancora raggiunto. È un atto di tale, folle ambizione tecnica e di tale, sfrontata foga romantica da far impallidire la maggior parte dei blockbuster contemporanei, riducendoli a timidi esercizi di stile.

Gance non si limita a codificare il biopic storico; inventa di fatto il biopic mitopoietico. Il suo interesse non è la pedante accuratezza del documentario, ma la creazione di un mito, la trasfigurazione di un uomo in un simbolo. Il suo Napoleone, interpretato da un Albert Dieudonné la cui somiglianza con il vero imperatore è a dir poco perturbante, non è un semplice generale o statista. È l'incarnazione dello spirito della Rivoluzione Francese, una forza della natura, un eroe romantico con l'anima di un personaggio di Victor Hugo e l'impeto di un condottiero di Plutarco. La celebre sequenza di apertura, con la battaglia a palle di neve nel collegio militare di Brienne, è una sinfonia in miniatura dell'intero film: il giovane Napoleone, già un genio tattico incompreso e osteggiato, guida i suoi compagni alla vittoria con la stessa determinazione con cui guiderà l'Armata d'Italia. Gance non ci mostra un bambino, ci mostra già l'Imperatore in nuce.

La grande sfida era rappresentare una figura storica di tale portata attraverso i mezzi del cinema muto, un cinema privo della parola, del Verbo che pure fu una delle armi di Napoleone. Gance risponde a questa sfida con un'esplosione di linguaggio puramente visivo, scatenando un arsenale di innovazioni tecniche che lasciano ancora oggi a bocca aperta. La sua macchina da presa mobile diventa un personaggio attivo, una testimone famelica che si getta nel cuore dell'azione. Durante la scena della "Marsigliese" o quella della presa della Convenzione, la camera è a mano, trema, si agita in mezzo alla folla, trasmettendoci il fervore e il caos della Rivoluzione in modo quasi fisico. Per rappresentare la fuga in barca di Napoleone dalla Corsica durante una tempesta, Gance lega la macchina da presa a un pendolo, creando un'esperienza di mal di mare cinematografico di un realismo sconcertante. La sua è un'autentica immersione nella realtà storica per farla toccare con mano allo spettatore.

L'apoteosi di questa sperimentazione è il celeberrimo finale, girato con la tecnica da lui battezzata Polyvision. Utilizzando tre macchine da presa affiancate, Gance crea un trittico che proietta tre immagini distinte su tre schermi, anticipando di decenni il Cinerama e il widescreen. Questo non è un semplice gimmick da nerd del cinema. È una scelta estetica e filosofica. A volte, Gance usa il trittico per creare un'immagine panoramica mozzafiato, un orizzonte visivo finalmente abbastanza grande da contenere l'ambizione di Napoleone che guarda verso l'Italia. Altre volte, lo usa per creare un montaggio simultaneo, una sinfonia di immagini che giustappone il primo piano del suo eroe, l'aquila simbolo del suo destino e le truppe in marcia. È la simultaneità del pensiero, della visione e dell'azione resa visibile. È cinema che si fa poesia pura.

Abel Gance fu una figura centrale di quella corrente d'avanguardia nota come Impressionismo Francese degli anni '20, ma la sua ambizione lo spingeva oltre. Se si cercano dei parallelismi, lo si può accostare a D.W. Griffith, di cui ammirava la scala epica di opere come Intolerance, o a Sergej Eisenstein, suo contemporaneo e rivale. Ma dove il montaggio di Eisenstein è intellettuale, dialettico, un martello che forgia un'idea nella mente dello spettatore, quello di Gance è emotivo, lirico, un fiume in piena che travolge i sensi. Il suo Napoléon è l'anti-Corazzata Potëmkin: non è la celebrazione della massa, ma l'apoteosi dell'individuo eccezionale, l'uomo del destino che piega la Storia alla sua volontà.

È affascinante porre in parallelo la visione storica di Gance con i successivi, grandi progetti cinematografici dedicati a Napoleone. Il più famoso è ovviamente il progetto mai nato di Stanley Kubrick, forse il più grande "film perduto" della storia. Quello di Kubrick sarebbe stato l'anti-mito per eccellenza. Basato su una ricerca storica ossessiva, avrebbe demistificato la figura di Napoleone, mostrandolo come un genio militare ma anche come un uomo pieno di contraddizioni psicologiche, un burocrate della guerra, un tiranno le cui vittorie erano basate su una logistica impeccabile e una spietata indifferenza per le vite umane. Sarebbe stato un'opera fredda, analitica, profondamente anti-romantica. Più di recente, il Napoleon di Ridley Scott si è posto in una via di mezzo. Pur con la consueta maestria di Scott nel mettere in scena battaglie spettacolari, il suo film si concentra su un ritratto più intimo e a tratti quasi caricaturale, focalizzandosi sul rapporto con Giuseppina e dipingendo un condottiero quasi imbranato e socialmente inadeguato. È un approccio valido, ma privo sia della furia mitopoietica di Gance che del rigore intellettuale che avrebbe avuto Kubrick.

Questo confronto non fa che esaltare la grandezza unica e irripetibile del film di Gance. La sua opera non è un documento storico, è la Storia che diventa un'opera lirica, un sogno ad occhi aperti proiettato su uno schermo. È un testamento alla fede quasi folle nel potere del cinema di non limitarsi a registrare il mondo, ma di reinventarlo, di infondergli un respiro epico e mitologico. Per questa sua ambizione smisurata e per le sue innovazioni che hanno indicato al cinema una strada che ancora oggi fatichiamo a percorrere, Napoléon non è solo un film da vedere prima di morire, è un'esperienza da cui si esce cambiati.

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