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Nazarin

1959

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Buñuel mette in scena un romanzo dello scrittore spagnolo Benito Pérez Galdós e ne trasfigura perfettamente il significato più intimo porgendolo ad uno spettatore ammaliato dal limpido fluire delle immagini. L'adattamento buñueliano non si limita a una mera trasposizione, ma opera una vera e propria distillazione dell'essenza galdosiana – che spesso si traduceva in una critica sociale e anticlericale velata – per poi iniettarvi il proprio veleno corrosivo, tipico di una sensibilità intellettuale e surrealista. Se Galdós, pur con il suo acume realista, manteneva una certa distanza, Buñuel si immerge nella materia, smontando le fondamenta della fede e della carità cristiana con la precisione di un chirurgo e la disincantata ironia di un filosofo scettico. È una "trasfigurazione" che anticipa, per certi versi, le lacerazioni etiche e spirituali che il regista spagnolo avrebbe esplorato con ancora maggiore virulenza in opere successive come il celebre Viridiana, anch'esso un'impietosa disamina della vanità dell'altruismo in un mondo irrevocabilmente corrotto.

La storia è incentrata sulla figura di padre Nazario, un San Francesco ante litteram, che nel Messico latifondista di Porfirio Diaz porta la sua missione di misericordia presso i più umili. La scelta del contesto storico non è casuale: il Messico di fine Ottocento, sotto il regime autoritario di Diaz, era una polveriera di disuguaglianze sociali, dove la miseria più abietta conviveva con l'ostentazione di un potere ecclesiastico e civile spesso indifferente o complice dell'oppressione. In questo paesaggio di sofferenza e pre-rivoluzione, Padre Nazario non è semplicemente un uomo di fede, ma un archetipo, un'incarnazione quasi pura della dottrina evangelica, che cerca di applicare letteralmente i precetti cristiani in un ambiente che non solo non è ricettivo, ma li respinge attivamente, come un corpo estraneo in un organismo infetto. La sua ingenuità o, forse, la sua radicale onestà spirituale, lo rende un bersaglio facile per le malvagità umane e per la crudeltà intrinseca del sistema.

Il frate si dona al prossimo secondo l’applicazione delle parole di Cristo, ma ogni suo sforzo è reso vano da una serie di avvenimenti che gli ritorcono contro la sua pietà e il suo altruismo. Questa serie di sventure non è il frutto di una banale sfortuna, ma l'espressione di una legge universale e spietata, che sembra voler dimostrare l'inefficacia, o addirittura la dannosità, della bontà assoluta in un mondo relativizzato dal male. Ogni atto di carità si traduce in un equivoco, ogni tentativo di aiutare si rovescia in un'accusa, ogni sacrificio genera ingratitudine o peggio, un'ulteriore caduta. Dalla prostituta che gli incendia la stanza e lo costringe alla fuga, ai banditi che lo derubano e lo umiliano, fino alla donna che lo accusa ingiustamente di omicidio, la sua via crucis è lastricata non da chiodi, ma da intenzioni distorte e risultati perversi. È il trionfo della realtà sulla purezza dell'ideale, un tema che Buñuel avrebbe esplorato in quasi tutta la sua filmografia, smascherando l'ipocrisia borghese e l'inutilità del dogmatismo.

Il Cristo diviene Don Chisciotte: ogni sforzo compiuto sembra vano e inutile. Questa è la fulminante intuizione di Buñuel, il cuore pulsante del film. Padre Nazario non è più solo una figura cristologica, ma un eroe cervantino, un idealista che combatte mulini a vento di male e incomprensione, condannato a fallire non per mancanza di fede o coraggio, ma per l'intrinseca assurdità e crudeltà del reale. La sua epopea è intrisa di un'amara ironia: il sacro si scontra con il profano e ne esce non glorificato, ma ridicolizzato, martirizzato non da carnefici, ma dall'indifferenza e dalla grettezza umana. È una parodia della Passione, dove il "calvario" si svolge tra i paesaggi polverosi del Messico e i "discepoli" sono figure marginali, spesso disposte a tradire o abbandonare il loro benefattore. Buñuel suggerisce che, in un mondo così, persino la divinità, se scendesse tra gli uomini con intenti di pura misericordia, sarebbe condannata a una patetica irrilevanza.

Filmato in uno splendido bianco e nero l’opera risulta di una sobrietà e di una pulizia insolite per il regista spagnolo amante del gusto di stupire e del grottesco. Questa apparente "ortodossia" visiva è in realtà una delle maggiori forze del film. Il merito va in gran parte al leggendario direttore della fotografia Gabriel Figueroa, la cui maestria nell'uso del chiaroscuro, dei cieli vasti e delle composizioni quasi pittoriche, conferisce a Nazarin una gravitas e una profondità che esaltano il dramma morale del protagonista. Lontano dalle provocazioni surrealiste di Un Chien Andalou o L'Âge d'or, Buñuel qui adotta uno stile visivo più contemplativo, quasi documentaristico nella sua descrizione della miseria, ma al tempo stesso capace di raggiungere vette di lirismo e simbolismo. Il contrasto netto tra luci e ombre non è solo estetico, ma riflette la dicotomia tra l'ideale e il reale, tra la purezza di Nazario e l'oscurità del mondo che lo circonda. Il bianco e nero esalta la nudità dei sentimenti e la spietatezza della condizione umana, evitando distrazioni cromatiche che avrebbero potuto stemperare la forza del messaggio. È una scelta stilistica che conferisce al film un'aura di atemporalità e di tragica solennità, in netto contrasto con le esplosioni di surrealismo o gli eccessi grotteschi che caratterizzeranno molte delle sue opere future.

Eppure anche qui trionfa il talento registico di Buñuel nel realizzare un film che scuote violentemente le coscienze (come già per altre sue opere, ma con mezzi del tutto diversi) e affascina per narrazione e fotografia. Nazarin non ha bisogno di sequenze oniriche o di simboli espliciti per essere radicalmente eversivo. La sua forza sta nella coerenza implacabile con cui porta alle estreme conseguenze l'idea che la bontà pura non possa sopravvivere, né tantomeno trionfare, in un mondo dominato da meschinità, egoismo e violenza sistemica. Il film vince la Palma d'Oro al Festival di Cannes nel 1959, segno del suo impatto internazionale e della sua capacità di disturbare pur nella sua apparente "semplicità" narrativa. Come in Simon del Desierto, dove un eremita cerca di sfuggire alle tentazioni sulla cima di una colonna solo per essere trascinato nel caos del mondo moderno, Buñuel qui demolisce ogni illusione di purezza e ascetismo. La coscienza viene scossa non dal macabro o dal surreale, ma dalla pura, nuda verità di un uomo buono che si scontra con la realtà e ne esce sconfitto, ma forse non spezzato. L'ultima immagine di Nazario, dubbioso e disilluso, ma ancora capace di un atto di condivisione, è il suggello di un'opera che non offre facili risposte, ma pone interrogativi brucianti sulla natura umana, sulla fede e sulla possibilità stessa della redenzione. È un capolavoro di un cineasta che, pur cambiando forma e contesto, non ha mai smesso di interrogare le più profonde contraddizioni dell'esistenza.

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