Notte e nebbia
1959
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Regista
Una carrellata lenta, quasi spettrale, scivola su un prato di un verde innaturale, saturo, sotto un cielo di un blu pacifico. L'erba cresce dove sorgevano le baracche, i fiori sbocciano dove il sangue impregnava la terra. Questa è la prima, brutale dichiarazione estetica di Alain Resnais in Notte e nebbia: il presente, nel 1955, non è una guarigione, ma un'oscena maschera colorata posta sul volto monocromatico e scarnificato del passato. Il film non è un documentario sulla Shoah; è un saggio cinematografico sulla memoria, sulla sua fallibilità, e sulla terrificante capacità del paesaggio di assorbire l'orrore e restituircelo come placida normalità.
Resnais, che avrebbe poi esplorato le architetture mentali del ricordo in capolavori come Hiroshima mon amour e L'anno scorso a Marienbad, qui pone le fondamenta della sua intera poetica. Lo fa attraverso una dialettica formale tanto semplice quanto devastante: il colore contro il bianco e nero. Il colore è il presente, un oggi che vorrebbe dimenticare, un turismo della memoria che passeggia incredulo tra le rovine. Il bianco e nero è l'archivio, l'eruzione del rimosso, la testimonianza inconfutabile di una realtà che sfida la rappresentazione. Ma il genio di Resnais non sta nella semplice alternanza. Sta nel modo in cui i due regimi visivi si infettano a vicenda. La fotografia a colori di Ghislain Cloquet e Sacha Vierny non è mai consolatoria; è malata, troppo vivida, come un'allucinazione febbrile. Le carrellate orizzontali sui binari arrugginiti o lungo il filo spinato trasformano i resti del campo in un'installazione d'arte astratta e crudele. Il presente non riesce a contenere il passato; ne è perseguitato, e la sua stessa bellezza diventa un'accusa.
Il testo, scritto dal poeta e sopravvissuto Jean Cayrol, è l'altra colonna portante dell'opera. Non è una narrazione didascalica, ma un lamento filosofico, una litania che si rifiuta di indicare un colpevole specifico per rifugiarsi in un'analisi più spaventosa: quella della burocrazia del male. La voce pacata di Michel Bouquet (nella versione originale) elenca gli orrori non con la foga del tribuno, ma con la precisione agghiacciante di un referto medico. Si parla di "un'architettura precisa", di "un'economia razionale", di "una contabilità meticolosa". Il campo di concentramento non è il frutto di una follia demoniaca, ma il prodotto finale e logico di un sistema, di un'organizzazione efficiente, di una modernità portata alle sue estreme conseguenze. È un'intuizione che anticipa di anni la "banalità del male" di Hannah Arendt. I carnefici non sono mostri alieni, ma "uomini come noi". Questa frase, ripetuta come un mantra, demolisce ogni comoda distanza tra lo spettatore e l'orrore, costringendoci a interrogarci non sull'alterità del male, ma sulla sua potenziale, terrificante prossimità.
La partitura musicale di Hanns Eisler, allievo di Schönberg e collaboratore di Brecht, opera in un crudele controcanto. Evita ogni sentimentalismo, ogni facile commento emotivo. È una musica modernista, dissonante, che invece di sottolineare l'orrore delle immagini, spesso lo gela, creando un effetto di straniamento brechtiano. Ci impedisce di piangere, costringendoci a pensare. Quando la cinepresa esplora i dormitori vuoti, la musica non è funebre, ma quasi lirica, evocando una normalità perduta che rende l'assenza ancora più assordante. È la stessa tecnica che Kubrick userà decenni dopo, facendo danzare le sue astronavi su un valzer di Strauss: l'accostamento tra immagine e suono genera un terzo significato, più profondo e inquietante.
Notte e nebbia è un'opera che dialoga costantemente con ciò che verrà dopo. È impossibile non vederlo come il contraltare dialettico di Shoah di Claude Lanzmann. Laddove Lanzmann, trent'anni dopo, rifiuterà categoricamente l'uso di immagini d'archivio, ritenendole insufficienti e quasi pornografiche, concentrandosi unicamente sulla testimonianza orale nel presente, Resnais si immerge nell'archivio fino a soffocare. Ma lo fa con una consapevolezza meta-testuale sbalorditiva. La narrazione di Cayrol mette costantemente in discussione la capacità stessa di quelle immagini di comunicare la verità. "Nessuna immagine," dice la voce fuori campo, "potrà mai rendere la vera dimensione di quella paura". Il film, quindi, è anche una riflessione disperata sui limiti del cinema, sulla sua impotenza di fronte all'irrappresentabile. Mostra l'orrore e, nello stesso istante, ne dichiara l'incomprensibilità ultima.
In questo, l'approccio di Resnais ricorda quello dello scrittore W.G. Sebald, in particolare in Austerlitz. Anche Sebald, attraverso le sue peregrinazioni letterarie in un'Europa carica di fantasmi, esplora come il paesaggio contemporaneo sia una palinsesto su cui sono ancora leggibili, per chi sa guardare, le tracce indelebili della catastrofe. Le stazioni ferroviarie, i sanatori, le fortezze diventano, come i campi di Resnais, "geografie del male", luoghi la cui apparente normalità è la menzogna più grande. Notte e nebbia non documenta un evento storico confinato nel passato; mappa la topografia di un trauma che continua a informare il presente.
La genesi stessa del film è un aneddoto che ne rivela la natura radicale. Commissionato dal Comité d'histoire de la Seconde Guerre mondiale per il decennale della liberazione dei campi, avrebbe potuto essere un'opera commemorativa, ufficiale, rassicurante. Nelle mani di Resnais diventa l'opposto. La sua onestà intellettuale fu tale da scontrarsi con la censura francese, che pretese di mascherare, in un fotogramma, il képi di un gendarme francese che sorveglia il campo di internamento di Pithiviers. Un dettaglio, un singolo fotogramma, che rivelava la scomoda verità della collaborazione, un rimosso nazionale che la Francia del dopoguerra non era ancora pronta ad affrontare. Questo piccolo scontro ci dice tutto: il film non era interessato a creare un comodo racconto di eroi e cattivi, ma a puntare il dito contro le strutture – politiche, sociali, umane – che rendono possibile l'abominio, ovunque e in qualunque tempo.
La celebre, terribile sequenza sui prodotti derivati dai corpi delle vittime – la pelle per i paralumi, i capelli per i tessuti, le ossa per i fertilizzanti – non è puro sensazionalismo. È la dimostrazione finale della tesi del film: la disumanizzazione totale passa attraverso la trasformazione dell'essere umano in materia prima, in risorsa economica da sfruttare fino all'ultimo residuo. È l'orrore non della violenza esplosiva, ma della logica capitalista e industriale applicata allo sterminio. Un'intuizione che si spinge ben oltre il contesto specifico, diventando un monito universale sulla reificazione dell'individuo.
Quando le immagini finali tornano al colore, alla pace irreale dei campi nel 1955, la voce di Cayrol pone la domanda che eleva il film da capolavoro a testo sacro del cinema civile: "Allora chi di noi veglia da questo strano osservatorio per avvertirci della venuta di nuovi carnefici? Hanno veramente un volto diverso dal nostro?". Notte e nebbia si chiude non con una risposta, ma con un'interrogazione che trapassa lo schermo e si conficca nella coscienza dello spettatore. Non è un film sul "allora", ma sul "ora". Non è un monumento funebre, ma uno specchio. Uno specchio che ci mostra un prato verde e ci chiede se siamo davvero sicuri di cosa si nasconda sotto i nostri piedi. È un antidoto cinematografico all'oblio, un vaccino inoculato direttamente nella retina, la cui efficacia, purtroppo, sembra richiedere richiami costanti.
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