Ombre
1960
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Regista
Un film non si guarda, si respira. E poche opere cinematografiche esigono un'inalazione così profonda e a tratti soffocante come Ombre. Il debutto di John Cassavetes non è un film, è un evento sismico; un'improvvisazione bebop tradotta in emulsione pancromatica, un graffito esistenziale tracciato sui muri sporchi della New York di fine anni Cinquanta. Visionarlo oggi significa assistere alla nascita non solo di un regista, ma di un intero modo di concepire il cinema: un cinema febbrile, nervoso, che rifiuta la sintassi levigata di Hollywood per abbracciare la grammatica spezzata e vibrante della vita stessa.
La genesi di Ombre è già, di per sé, un manifesto programmatico. Nato da un laboratorio di recitazione, finanziato con mezzi di fortuna, girato in 16mm con una troupe di volontari e attori non professionisti, il film incarna una furia creativa che è la stessa dei suoi protagonisti. La leggenda, alimentata dallo stesso Cassavetes con la verve di un P.T. Barnum dell'avanguardia, parla di due versioni: una prima, più improvvisata e focalizzata sui personaggi, e una seconda, girata ex novo per dare maggior peso alla trama dopo una tiepida accoglienza. Quale che sia la verità filologica, il risultato è un ibrido miracoloso, un oggetto cinematografico che pulsa di un'urgenza quasi documentaristica pur essendo orchestrato con la sensibilità di un poeta.
La trama, se di trama si può parlare, è un filo esile teso tra tre vite: i fratelli Hugh, Ben e Lelia. Hugh (Hugh Hurd) è un cantante di jazz di un certo talento, costretto a umilianti presentazioni in locali di terz'ordine, portatore di una dignità ferita e di una responsabilità fraterna che lo ancora a una realtà frustrante. Ben (Ben Carruthers), trombettista indolente e archetipo del "cool" beatnik, vaga per la città con i suoi amici, immerso in una sorta di nebbia esistenziale, incapace di connettersi davvero con chiunque, persino con sé stesso. È una figura che sembra uscita direttamente da una pagina di Jack Kerouac, se Kerouac avesse avuto meno slancio romantico e più disperazione da dopoguerra. E poi c'è Lelia (Lelia Goldoni), il cuore pulsante e ferito della narrazione. Giovane, curiosa, vitale, è la più chiara dei tre fratelli, tanto da poter "passare" per bianca. Il suo breve, intenso idillio con il giovane Tony (Anthony Ray) diventa il catalizzatore drammatico del film, il punto in cui le tensioni razziali, fino a quel momento un sottofondo implicito, esplodono in un momento di cruda, imbarazzata rivelazione.
Cassavetes non è interessato a girare un film a tesi sul razzismo. L'approccio non è sociologico, ma ontologico. La "questione razziale" non è un problema da dibattere, ma un dato di fatto esistenziale, un elemento del paesaggio interiore dei personaggi. La scena epifanica in cui Tony, recatosi a casa di Lelia per una sorpresa, scopre la sua famiglia e la sua vera identità razziale, è un capolavoro di understatement e di violenza psicologica. Non ci sono discorsi, non ci sono proclami. C'è solo l'imbarazzo, il gelo che cala nella stanza, lo sguardo di Tony che si trasforma, e la performance straziante di Lelia Goldoni, che passa dalla gioia radiosa a una disintegrazione silenziosa e terribile. È qui che il film trascende il suo contesto per diventare universale: non parla dell'America degli anni '50, parla della fragilità dell'identità, del momento in cui il nostro essere percepito dagli altri entra in collisione devastante con il nostro essere percepito da noi stessi.
Stilisticamente, Ombre è una rottura violenta con ogni convenzione. La macchina da presa a mano di Erich Kollmar non si limita a seguire i personaggi: li pedina, li aggredisce, inciampa con loro, ne cattura i respiri e i silenzi. È un occhio febbrile, impressionista, che preferisce l'energia di un'inquadratura sgranata alla perfezione sterile di un master shot. Si avverte l'eco della lezione del Neorealismo italiano, ma spogliato di ogni residua impostazione melodrammatica e immerso in una sensibilità squisitamente americana, urbana e jazzistica. Se De Sica e Rossellini usavano la strada come teatro della storia collettiva, Cassavetes la usa come labirinto dell'anima individuale. Le strade notturne di Manhattan, i bar fumosi, gli appartamenti angusti non sono semplici sfondi, ma estensioni dello stato psicologico dei personaggi, un correlativo oggettivo degno di T.S. Eliot.
Il parallelismo con il jazz, e in particolare con il bebop, non è una semplice suggestione critica, ma la chiave di volta per decifrare il film. La colonna sonora, con i suoi frammenti abrasivi e le sue melodie malinconiche (opera, tra gli altri, del genio di Charles Mingus e Shafi Hadi), non commenta l'azione: è l'azione stessa. Il dialogo, in gran parte improvvisato, ha la stessa struttura di un'assolo jazz: parte da un tema (la sceneggiatura di base) per poi lanciarsi in variazioni imprevedibili, virtuosismi verbali, silenzi sincopati e ritorni al motivo principale. Gli attori non recitano, "suonano" i loro personaggi, in un interplay che dà al film una sensazione di irripetibilità, come se ogni scena potesse accadere solo in quel preciso istante. È un cinema che condivide lo stesso spirito che animava i pittori dell'Action Painting, come Jackson Pollock o Willem de Kooning, anch'essi attivi in quella stessa New York: l'opera non è la rappresentazione di un'emozione, ma la traccia fisica e visibile dell'atto creativo stesso. Ombre è la tela di Cassavetes, e le sue macchie di colore sono i volti, i corpi e le voci dei suoi attori.
L'influenza di Ombre è incalcolabile. È il Big Bang da cui si è generata la galassia del cinema indipendente americano, da Shirley Clarke alla New Hollywood di Scorsese e Coppola (che devono a Cassavetes più di quanto non si ammetta), fino ai vari Jarmusch, Soderbergh e alla progenie "mumblecore". Ma è anche un cugino americano, nato quasi in contemporanea e per partenogenesi, della Nouvelle Vague francese. C'è lo stesso disprezzo per il "cinéma de papa", la stessa voglia di portare la cinepresa in strada, la stessa fascinazione per una gioventù alienata e per le narrazioni frammentate. Se Godard, in Fino all'ultimo respiro, decostruiva il linguaggio del cinema citandolo e giocandoci, Cassavetes sembra quasi ignorarlo, agendo come un Adamo cinematografico che reinventa il mondo a ogni inquadratura.
Rivedere Ombre oggi è un'esperienza ancora potente, a tratti persino ostica. Il suo rifiuto di ogni comfort narrativo, la sua estetica volutamente grezza, possono respingere uno spettatore abituato a una narrazione più fluida. Ma superato l'impatto iniziale, ci si ritrova immersi in un'opera di una purezza e di un'onestà disarmanti. È un film che non chiede di essere ammirato, ma vissuto. È un accordo dissonante che continua a risuonare, una domanda senza risposta sussurrata nel buio di un cinema o di una stanza, mentre fuori, nelle strade, la vita continua a scorrere, caotica, dolorosa e meravigliosamente, terribilmente, reale. Non è un capolavoro perché è perfetto; è un capolavoro perché sanguina. E le sue ferite non si sono ancora rimarginate.
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