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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Ombre malesi

1940

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L'abito da sera indossato per cena nella giungla non è un vezzo, è una dichiarazione di guerra. È un atto di fede ontologica, la trincea finale di un uomo che oppone la grammatica della civiltà al balbettio del caos primordiale. In questa liturgia laica e disperata risiede il cuore pulsante di Ombre malesi (titolo originale: The Outstation), capolavoro sussurrato di Thorold Dickinson, che adatta W. Somerset Maugham con una fedeltà non tanto alla lettera, quanto allo spirito caustico, disincantato e ferocemente lucido dello scrittore. Il film è una dissezione chirurgica dell'anima coloniale, eseguita non con il bisturi della polemica politica, ma con l'ago sottile dell'analisi psicologica.

Siamo in Malesia, all'inizio del XX secolo. In un avamposto isolato, tagliato fuori dal mondo, un impeccabile Alec Guinness, nel ruolo di Warburton, governa il suo minuscolo feudo con una disciplina ferrea che è al contempo estetica e morale. Ogni sera, la sua tavola è apparecchiata secondo le regole dell'etichetta londinese. Ogni sera, il grammofono suona Bach. Ogni sera, la conversazione deve essere forbita, precisa, immune alle volgarità del quotidiano. Warburton non è un semplice amministratore; è il sacerdote di un culto, il custode di un ordine artificiale eretto come una diga contro la marea verde e pulsante della giungla che lo circonda. Una giungla che non è solo un'entità geografica, ma una forza metafisica, un'eco del "cuore di tenebra" di Conrad, spogliato però di ogni orrore cosmico e ridotto a una più intima, e forse più terribile, minaccia di dissoluzione personale.

L'equilibrio precario di questo microcosmo viene frantumato dall'arrivo di Cooper (Jack Hawkins), il nuovo assistente. Cooper è l'antitesi di Warburton: è un uomo pratico, rozzo, energico, un prodotto della guerra che non ha tempo per le formalità. Vede l'ossessione del suo superiore per il protocollo come una ridicola affettazione, una debolezza. Non capisce che per Warburton, la forma è la sostanza. Perdere quella forma significa cedere alla giungla, diventare parte del disordine, dissolversi. Il loro scontro non è un semplice conflitto tra due caratteri incompatibili; è la collisione tra due modi di intendere l'esistenza. È Platone contro Diogene in una palafitta equatoriale. È l'ultima, strenua difesa dell'ideale apollineo contro l'irruzione della pragmatica dionisiaca.

Dickinson, regista troppo spesso relegato nelle note a piè di pagina della storia del cinema (un errore madornale, si pensi solo al gotico febbrile de La regina di spade), orchestra questo Kammerspiel equatoriale con una maestria sublime. Il suo uso del Technicolor è fondamentale e controintuitivo. Lontano dal realismo sgranato che ci aspetteremmo da un racconto di frontiera, la fotografia di Geoffrey Unsworth è lussureggiante, quasi iperreale. I colori saturi della vegetazione, dei tessuti, dei tramonti, creano una bellezza soffocante, un paradiso visivo che è anche una prigione psicologica. Questa scelta estetica, che ricorda da vicino la nevrosi cromatica di Powell e Pressburger in Narciso nero, serve a sottolineare il divario incolmabile tra la superficie idilliaca e il marciume interiore che sta corrodendo i personaggi. La bellezza della natura non è consolatoria, ma ostile, indifferente alla commedia umana che si svolge al suo interno.

Alec Guinness offre una delle sue interpretazioni più complesse e stratificate. Il suo Warburton non è una macchietta, non è lo stereotipo del britannico rigido e snob. È un uomo profondamente fragile, un esteta che ha trasformato la propria vita in un'opera d'arte per sopravvivere all'orrore del vuoto. La sua pignoleria, il suo attaccamento quasi patologico alle regole, nascondono un terrore profondo. Quando corregge la grammatica di Cooper o insiste sull'uso della cravatta corretta, non sta esercitando il potere, sta disperatamente puntellando le mura della sua fortezza mentale. È un personaggio tragico, un re Lear del galateo il cui regno è una capanna e i cui sudditi sono servitori silenziosi e un assistente ribelle. Guinness riesce a trasmettere tutto questo con una micro-recitazione fatta di sguardi, di pause, di impercettibili irrigidimenti della mascella. È una performance che anticipa quella, altrettanto grandiosa, del Colonnello Nicholson ne Il ponte sul fiume Kwai, un altro uomo che cerca di imporre un ordine astratto e folle su una realtà caotica.

La struttura narrativa del film è quasi un'allegoria meta-testuale dell'atto stesso del colonizzare. Warburton, come un regista dispotico, tenta di imporre una mise-en-scène britannica su un set recalcitrante. Esige che tutti gli "attori" (Cooper, i servitori, persino la natura) seguano il suo copione. L'avamposto non è altro che un palcoscenico dove ogni giorno va in scena la stessa rappresentazione: "La Civiltà". L'arrivo di Cooper è l'attore che va a soggetto, che rompe la quarta parete della finzione, svelandone l'intrinseca assurdità. In questo senso, Ombre malesi può essere letto come un precursore involontario di certi film di fantascienza. L'avamposto è una stazione spaziale orbitante attorno a un pianeta alieno, un'Arcadia condannata in cui un piccolo equipaggio cerca di mantenere i protocolli terrestri per non impazzire, per non essere "contaminato" dall'ambiente esterno. Warburton è il comandante che si aggrappa al manuale di bordo mentre l'universo fuori dall'oblò preme per entrare.

Il film, prodotto nel 1951, cattura con una precisione sismografica le scosse di assestamento di un Impero Britannico ormai al crepuscolo. Non c'è trionfalismo, non c'è nostalgia per i "bei tempi andati". C'è, piuttosto, una malinconia profonda per la fine di un'illusione. L'opera di Dickinson non giudica il colonialismo con le categorie morali del presente; si limita a registrarne, con l'acutezza di un entomologo, il collasso psicologico dei suoi agenti. Il vero conflitto non è tra colonizzatori e colonizzati (questi ultimi rimangono una presenza fantasmatica, potente ma in gran parte silenziosa, un coro greco che osserva la tragedia dei suoi padroni), ma all'interno della stessa mentalità imperiale, ormai scissa tra un passato ritualistico e un futuro brutalmente efficiente, entrambi inadeguati a comprendere la terra che pretendono di dominare.

In un'epoca di narrazioni urlate e di tesi esplicite, riscoprire Ombre malesi è come imbattersi in un meccanismo di precisione svizzera. È un film che affida la sua enorme potenza emotiva e intellettuale al non detto, ai silenzi carichi di tensione, al conflitto tra l'eleganza della forma e la brutalità del contenuto. È la cronaca di un naufragio annunciato, quello di un uomo che ha scambiato il menù per il pasto, la mappa per il territorio, e che alla fine viene divorato non tanto dalla giungla, quanto dalla sua stessa, magnifica e fatale illusione di controllo. Un'opera che dimostra come il più grande dei drammi possa svolgersi nello spazio angusto tra una tazza di tè e una sonata di Bach, nel cuore di una tenebra che è, prima di tutto, interiore.

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