
Ordet
1955
Vota questo film
Media: 0.00 / 5
(0 voti)
Regista
Penultimo film del regista danese, Carl Theodor Dreyer, un maestro la cui opera intera è intrisa di un’indagine quasi ossessiva sulla fede, sul destino e sulla trascendenza, si distingue per un afflato mistico infuso in tutta l’opera. Non si tratta di una religiosità didascalica o consolatoria, ma di una spiritualità tormentata, scarnificata, che scava nelle piaghe dell’animo umano con la stessa impietosa lucidità con cui aveva già dissezionato il martirio in La Passione di Giovanna d'Arco o la colpa in Dies Irae.
Un film senza dubbio complesso, dove il sostrato dialogico, fatto di dispute teologiche acuminate e silenzi assordanti, viene a collidere con l’aura spirituale che Dreyer edifica con una precisione quasi geometrica, dando luogo ad un’atmosfera di sostanziale sospensione di tempo, luogo e azione. Questa sospensione non è mera astrazione, ma un artificio drammatico che eleva la narrazione a parabola universale. Ogni gesto, ogni sguardo, ogni respiro sembra caricarsi di un peso metafisico, dilatando la percezione dello spettatore in una dimensione dove il sacro e il profano non sono entità distinte, ma fili inestricabili di una stessa trama. È un cinema che respira e pulsa con un ritmo ipnotico, anticipando in qualche modo la lentezza contemplativa di Tarkovskij, pur mantenendo una sua inconfondibile e rigorosa austerità.
La storia è ambientata nel 1925 in una fattoria danese, un microcosmo austero e isolato che diviene teatro di un dramma intimo ma di risonanza universale. Il patriarca Borgen ha tre figli: Mikkel, Johannes e Anders. Il conflitto centrale nasce dal rigido luteranesimo del vecchio Borgen, un uomo la cui fede è granitica e inamovibile, ancorata al dogma e alla tradizione. Quest’ultimo, Anders, si innamora della figlia di un sarto, Inger, il cui padre è a capo di una setta fondamentalista luterana, la "Inner Mission", ancora più intransigente e puritana. La loro opposizione all'unione, basata su sottili ma insormontabili differenze dottrinali, innesca una crisi profonda, svelando la tensione tra la fede dogmatica e l’amore umano, tra la legge divina e il desiderio terreno. Johannes, il figlio di mezzo, un tempo studente di teologia e ora considerato folle dopo aver creduto di essere la reincarnazione di Giovanni Battista, erra per la fattoria recitando passi biblici, premonizioni e condanne, la sua “follia” mistica è il grimaldello che scardina le certezze familiari e religiose.
Quando la moglie di Mikkel, Inger, donna dalla fede semplice e genuina, amata da tutti per la sua bontà, morirà di parto, lasciando la famiglia nel lutto e nella disperazione, il folle mistico Johannes opererà il suo miracolo riportando le cose alla normalità prestabilita. E qui risiede forse l’enigma più affascinante dell’opera: la natura di questo miracolo. È un atto di grazia divina, una manifestazione della fede cieca, o il trionfo dell’amore umano in grado di piegare persino le leggi della natura? Dreyer, con la sua consueta ambiguità sublime, rifiuta di offrire risposte facili, lasciando il miracolo stesso come un’incarnazione del mistero, un ponte gettato tra l’irrazionale e il possibile, e in ciò risiede la sua grandezza, richiamando per certi versi le complesse riflessioni sul divino e sull'umano di Ingmar Bergman.
Opera di immenso valore artistico, costituita da una recitazione asciutta, che evoca una sorta di minimalismo spirituale, quasi i volti fossero maschere archetipiche della fede e del dubbio, un’eco della ricerca di "modelli" umani in Bresson ma con una vibrazione emotiva ancora più lacerante; da dialoghi pressanti e asettici, veri e propri duelli filosofici e teologici che definiscono la roccaforte di fede e dogmatismo che è la casa dei Borgen, un crocevia di preghiere, invettive e silenzi che pesano come macigni; da un uso onirico e quasi ipnotico della cinecamera, capace di indugiare su volti e ambienti con una lentezza contemplativa che trascende il racconto per farsi meditazione. Ogni inquadratura è una composizione pittorica, un quadro di luce e ombra dove l’essenziale emerge dalla sobrietà del gesto. Da una fotografia meravigliosa, algida, sontuosa, da un bianco e nero che percuote la campagna come una frusta regalando lampi di bellezza inaudita (la stessa raffinata ricerca fotografica volta ad avviluppare di bianco e nero l’ambiente rurale che ritroviamo ne Il Nastro Bianco di Haneke). Ma mentre Haneke impiega il suo biancore glaciale per svelare l’ipocrisia e la violenza latente in una società puritana, Dreyer lo utilizza per esaltare la purezza della ricerca spirituale, per rendere tangibile l’invisibile, per cogliere la luce divina persino nell’ombra più profonda del dolore umano. È una pittura di Caravaggio trasportata su pellicola, dove i fasci di luce fendono l'oscurità per rivelare drammi interiori ed epifanie inattese, rendendo Ordet non solo un film, ma un’esperienza trascendente e indimenticabile.
Attori Principali
Generi
Paese
Galleria








Commenti
Loading comments...