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Paisà

1946

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Uno dei vertici del neorealismo italiano, "Paisà" è un film che non si limita a testimoniare, ma si fa esso stesso carne e spirito di un'epoca, raggiunto da un Rossellini che scompone l’immagine della realtà come in un prisma. Questo approccio prismatico non è una mera scelta stilistica, bensì un’acuta strategia narrativa per cogliere la frammentazione di un Paese allo sbando, un mosaico umano e geografico che si ricomponeva, o tentava di farlo, sotto il peso e la spinta dell'avanzata alleata. Lontano dall'epica trionfalistica di certa cinematografia bellica, Rossellini, con la lucidità di un cronista e la sensibilità di un poeta, ci consegna non una singola storia, ma un’epopea corale in sei movimenti, ciascuno una gemma di autenticità.

Ne ricava sei episodi, tutti plasmati dalla forza narrativa e dalla penna di colossi della scrittura come Sergio Amidei, Vasco Pratolini, Marcello Pagliero, Alfred Hayes, e l'allora giovanissimo e geniale Federico Fellini, la cui visione grottesca e umanissima già affiorava tra le pieghe del dramma. Questa collaborazione, pur eterogenea nelle sensibilità individuali, converge in un’unica, potente visione autoriale, unificata dalla direzione magistrale di Rossellini. Questi capitoli, distinti ma intrinsecamente legati da un filo invisibile di umanità sofferente e resiliente, si ergono come autentici bassorilievi: non affreschi panoramici, ma dettagli scolpiti con precisione quasi documentaristica, istantanee vibranti di una nazione che, dal sud martoriato di una Sicilia ancora tremante sotto le bombe, al nord anelante alla liberazione, mutava pelle giorno dopo giorno.

Tutte le storie possono considerarsi dei fotogrammi, delle vignette di una realtà che cambiava velocemente con l’avanzata degli alleati da sud a nord. Da Palermo al Po, Rossellini mappa la penisola, seguendo il ritmo della marcia liberatrice. Ciascuna storia narra vicende legate a quella trionfale avanzata, ciascuna storia è fatta di gente semplice, che dovendosi arrabattare con una vita di stenti ritrova nelle vittorie dell’esercito liberatore una sorta di redenzione. Ed è proprio qui che il film dispiega la sua complessità più profonda: la "liberazione" non è mai un concetto univoco o semplice. L'incontro tra i soldati americani, spesso ingenui o superficiali nella loro percezione dell'Europa, e la popolazione italiana, provata ma dignitosa, genera un caleidoscopio di incomprensioni, piccole tragedie, fugaci momenti di solidarietà e persino nuove forme di sfruttamento.

Si pensi all'episodio napoletano, dove il piccolo scugnizzo Pasquale ruba le scarpe a un soldato afroamericano ubriaco per poi provare una toccante, quasi incomprensibile, forma di pietà; o a quello romano, dove la prostituta Francesca si illude di ritrovare l’innocenza perduta nel soldato Fred, che non la riconosce, accecato dal suo proprio idealismo; fino all'apice drammatico nel Delta del Po, dove la resistenza partigiana e gli Alleati combattono fianco a fianco contro i nazifascisti, in una brutalità che spazza via ogni illusione di facile redenzione. Il film evita qualsiasi retorica trionfalistica, mostrando che la guerra non finisce con la firma di una pace, ma continua a risuonare nelle vite spezzate e nelle speranze infrante.

Su tutto lo sguardo severo e amorevole di Rossellini che non scende a compromessi con la metafora ma che filma la realtà e tale la traspone inalterata su pellicola. Questa fedeltà al "reale", quasi ossessiva, è la cifra stilistica del Rossellini più puro. Egli rifiuta gli artifizi drammatici, la recitazione impostata degli attori professionisti (privilegiando spesso volti presi dalla strada), le scenografie ricostruite in studio. "Paisà" è girato interamente in esterni, spesso con una troupe minima, in condizioni precarie, catturando la vera polvere delle strade, la vera luce del sole, l'autentica stanchezza sui volti. Non è un caso che la Nouvelle Vague francese, con registi come Jean-Luc Godard e François Truffaut, abbia guardato a Rossellini come a un maestro e a un liberatore, ammirandone la capacità di infrangere le convenzioni narrative e di far respirare la vita sullo schermo con una libertà inedita. La sua macchina da presa non è un occhio giudicante, ma uno strumento di indagine, quasi scientifico nella sua registrazione dei fatti, ma intriso di una profonda e commovente umanità. È un cinema che non spiega, ma mostra, lasciando allo spettatore il compito di trarre le proprie conclusioni, di confrontarsi con una verità scomoda e multiforme.

Un film che è la realtà stessa, dunque, con un processo speculativo che inizia e si conclude con immagini di una potenza unica. La sua importanza trascende la mera catalogazione storica, elevandosi a manifesto etico e artistico. "Paisà" non è solo la cronaca di una liberazione, ma una riflessione sulla natura dell'uomo in circostanze estreme, sulle barriere linguistiche e culturali che si frappongono alla comprensione reciproca, e sulla capacità di resistenza dello spirito umano. La sua risonanza è eterna, un monumento cinematografico che continua a parlare con la stessa cruda e disarmante onestà di quando fu realizzato, non solo come documento imprescindibile del neorealismo italiano, ma come uno dei vertici assoluti del cinema mondiale. La sua forza non risiede nella perfezione formale, ma nella sua radicale, quasi brutale, autenticità, che ci spinge ancora oggi a interrogarci sul significato di libertà, sofferenza e sopravvivenza.

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