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Paprika - Sognando un sogno

2006

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Media: 4.50 / 5

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Un torrente di elettrodomestici marcianti, bambole maneki-neko e rane che suonano la tromba invade le strade di Tokyo, una parata carnascialesca e grottesca che straripa dal subconscio per fagocitare la realtà. Questa processione di feticci scartati, iconografia pop e terrori repressi non è solo l'immagine più memorabile di Paprika, ma è la sua stessa essenza: un'allucinazione controllata, un cortocircuito sinestetico che Satoshi Kon, al suo canto del cigno, orchestra con la precisione di un neurochirurgo e la follia di un surrealista. Guardare Paprika non è un'esperienza passiva; è un'immersione violenta e gioiosa nel sistema nervoso centrale del cinema stesso, un luogo in cui le sinapsi sparano fotogrammi e la logica narrativa si dissolve come un sogno al risveglio.

Basato sull'omonimo romanzo del 1993 di Yasutaka Tsutsui – un'opera a lungo considerata infilmabile, una sorta di Finnegans Wake della fantascienza nipponica –, il film ci introduce in un futuro prossimo dove la psicoterapia ha compiuto il suo balzo quantico. Il DC Mini, un dispositivo rivoluzionario, permette ai terapeuti di entrare letteralmente nei sogni dei loro pazienti. Ma come ogni tecnologia che promette di mappare le ultime frontiere dell'umano, essa è una porta di Giano: da un lato la guarigione, dall'altro la violazione definitiva. Quando alcuni prototipi vengono rubati, si scatena una forma di terrorismo onirico, in cui i sogni di più individui iniziano a fondersi in un incubo collettivo, un pandemonio psichico che minaccia di collassare il confine tra il mondo della veglia e quello dell'immaginazione.

In questo scenario si muove la nostra duplice protagonista. Da una parte, la dottoressa Atsuko Chiba, algida, impeccabile, incarnazione della razionalità scientifica e del controllo apollineo. Dall'altra, il suo alter ego onirico, Paprika, una "detective dei sogni" esuberante, vestita di rosso fiammante, che si muove nel paesaggio mentale con la grazia di un folletto e l'arguzia di un personaggio dei cartoni animati classici, libera dalle catene della fisica e del decoro. Atsuko e Paprika non sono Jekyll e Hyde, ma piuttosto l'Io e l'Es in un dialogo febbrile, la persona pubblica e l'avatar digitale, un dualismo che nel 2006 era profetico e oggi è la cronaca quotidiana della nostra esistenza scissa tra reale e virtuale. Kon anticipa qui, con acume spaventoso, la fluidità identitaria dell'era di Internet, dove il sé è un costrutto negoziabile, un'interfaccia da personalizzare.

L'indagine per recuperare i DC Mini rubati è il motore narrativo, ma è un pretesto, un MacGuffin freudiano che permette a Kon di fare ciò che sa fare meglio: smantellare la grammatica del cinema per riesporne le fondamenta. Ogni suo film è, in fondo, una meditazione sulla natura porosa della realtà e della sua rappresentazione, ma in Paprika questa ossessione raggiunge il suo apice metatestuale. Il personaggio chiave per comprendere questa operazione è il detective Konakawa, un uomo tormentato da un incubo ricorrente che è un pastiche di generi cinematografici. Le sue sedute con Paprika diventano un viaggio attraverso la storia del cinema: dal noir alla Tarzan, dal film d'azione all'avventura romantica. Konakawa è bloccato in un loop di cliché cinematografici perché ha abbandonato il suo sogno di diventare regista. Il suo trauma non è psicologico, ma cinematografico: è la paralisi creativa, l'incapacità di trovare un finale originale per la propria storia.

In questa sottotrama, Kon svela il suo gioco di prestigio. Il sogno, con i suoi salti illogici, le sue associazioni libere e i suoi match-cut impossibili, non è altro che cinema allo stato puro. E viceversa, il cinema non è che un sogno collettivo e industrializzato. L'atto del montaggio, la specialità assoluta di Kon, diventa lo strumento per cucire insieme non solo scene, ma interi piani dell'esistenza. Un personaggio si tuffa da un balcone nel mondo reale per atterrare nel bel mezzo di una scena di un film dentro a un sogno. Un corridoio d'albergo si trasforma in una giungla lussureggiante. Queste transizioni non sono semplici virtuosismi stilistici; sono affermazioni ontologiche. Per Kon, non esiste una gerarchia stabile tra il sogno, il ricordo, il film e la realtà. Sono tutti schermi intercambiabili su cui proiettiamo le nostre identità. Se David Lynch in Mulholland Drive usa la logica onirica per raccontare il collasso di una psiche, Kon la usa per celebrare l'esplosione liberatoria di una coscienza collettiva, un'apoteosi che è tanto terrificante quanto sublime.

La famosa parata, il cuore pulsante e delirante del film, è un capolavoro di animazione e di simbologia. È un Hyakki Yagyō (la "Parata notturna dei cento demoni" del folklore giapponese) post-moderno, dove gli yōkai sono sostituiti dai detriti della società dei consumi: frigoriferi, statue della Libertà, cellulari, carri armati giocattolo. È il rimosso collettivo di un'intera cultura che torna a galla, un'incontenibile processione del kitsch che marcia al ritmo ipnotico e martellante della colonna sonora di Susumu Hirasawa, un tappeto sonoro tecno-pop che è l'equivalente uditivo del sovraccarico visivo. È l'inconscio come discarica e come carnevale, una critica sferzante a una società che produce e scarta incessantemente, il cui spirito si manifesta nel suo stesso ciarpame. C'è un'eco delle visioni affollate di Hieronymus Bosch, ma filtrate attraverso l'estetica pop e l'ansia tecnologica di inizio millennio.

Il conflitto del film, in ultima analisi, è tra il controllo e il caos, tra chi vuole recintare il sogno e chi ne comprende la natura intrinsecamente anarchica. Il villain, il Presidente della fondazione, non è un semplice megalomane. È un conservatore, un reazionario che vede nella tecnologia del DC Mini una profanazione del "santuario" inviolabile del sogno. La sua è una paura quasi religiosa di fronte alla tracotanza della scienza. Paradossalmente, per "proteggere" il sogno, scatena un incubo che annulla ogni confine, rivelando la follia insita in ogni forma di fondamentalismo.

Satoshi Kon è morto nel 2010, a soli 46 anni, lasciando incompiuto il suo ultimo progetto, Dreaming Machine. Questa tragica realtà getta su Paprika una luce ancora più intensa e struggente. Il film non è solo il suo testamento artistico, ma la summa del suo intero percorso. Da Perfect Blue a Millennium Actress, la sua opera è stata una costante indagine sull'identità, la memoria e la finzione. Paprika è il punto di arrivo, il momento in cui tutte le sue ossessioni convergono in un'esplosione finale di creatività pirotecnica. È un film che non si limita a raccontare i sogni, ma funziona come un sogno, bypassando le nostre facoltà critiche per parlare direttamente al nostro subconscio. Ci lascia con una domanda vertiginosa e meravigliosa, la stessa che si pone il detective Konakawa alla fine: se la vita è un film che stiamo guardando, chi è il regista? E, soprattutto, siamo pronti a comprare il biglietto per il prossimo spettacolo? Con Paprika, Satoshi Kon non ci ha dato una risposta, ma ci ha regalato il più esaltante dei trailer.

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