Patton, generale d'acciaio
1970
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Regista
Un colosso in uniforme si staglia contro una bandiera americana così vasta da riempire l'universo del fotogramma, saturando lo schermo 70mm di un rosso, bianco e blu quasi aggressivi. Non si rivolge a un plotone di soldati, ma a noi. Rompe ogni illusione scenica, ogni quarta parete, e con una voce che è un misto di ghiaia e metallo arrugginito, ci lancia un sermone che è al contempo un manifesto programmatico e un atto di pura, sfrontata belligeranza. Questa sequenza di apertura di Patton, generale d'acciaio (1970) non è un semplice prologo; è una dichiarazione di guerra estetica, un guanto di sfida gettato da Franklin J. Schaffner e dal suo sceneggiatore Francis Ford Coppola (sì, proprio lui, alla vigilia della sua consacrazione con Il Padrino) allo spettatore del 1970, immerso fino al collo nelle paludi del Vietnam e nel fervore della controcultura. Il film ci interroga fin dal primo istante: siete pronti ad affrontare un uomo del genere? Un uomo la cui esistenza stessa è una bestemmia per la sensibilità moderna?
La grandezza monumentale del film, e la sua perdurante, perturbante rilevanza, risiede proprio nell'aver capito che per raccontare George S. Patton Jr. non si poteva realizzare un biopic convenzionale o un war movie celebrativo. Era necessario scolpire un ritratto tragico, un'opera quasi shakespeariana su un titano fuori tempo massimo, un Achille infuriato che si ritrova a combattere non solo i panzer di Rommel, ma anche e soprattutto la burocrazia, la diplomazia e la prosaica logica del XX secolo. La performance di George C. Scott, che va ben oltre la mimesi per raggiungere una sorta di possessione spiritica, non incarna semplicemente un generale; incarna l'archetipo del Guerriero nella sua forma più pura e, per questo, più terrificante e obsoleta. Scott, con la sua celebre e coerentissima rinuncia all'Oscar, sembrava quasi voler dire che un tale personaggio non poteva essere addomesticato, neppure dalla glassa dorata di un premio hollywoodiano. Il suo Patton è un concentrato di contraddizioni sfolgoranti: un devoto cristiano che crede fermamente nella reincarnazione e dialoga con gli spiriti dei legionari romani tra le rovine di antiche città; un poeta sensibile che scrive odi alla guerra; un aristocratico colto con la bocca di uno scaricatore di porto; uno stratega geniale la cui hubris lo porta a un passo dalla rovina, come un eroe di Sofocle accecato dalla propria stessa luce.
Il film, con la sua struttura episodica che segue le campagne di Patton dal Nord Africa alla Sicilia, fino alla sua marginalizzazione e alla tardiva rivincita nella Battaglia delle Ardenne, rifiuta la narrazione teleologica del successo. Assomiglia più a un mosaico che a una linea retta, dove ogni tessera rivela una nuova, spesso contraddittoria, sfaccettatura del protagonista. In questo, la sceneggiatura di Coppola e Edmund H. North è un capolavoro di equilibrio. Non giudica mai. Presenta Patton in tutta la sua magniloquenza e la sua meschinità – dal genio tattico dispiegato nella corsa verso Messina alla brutalità quasi infantile dell'incidente dello schiaffo al soldato traumatizzato. Lo spettatore è lasciato solo a comporre il puzzle, a decidere se sta osservando un eroe, un mostro, o forse, più correttamente, una forza della natura incanalata per un breve, violento periodo dalla Storia.
Il contesto storico della sua uscita è fondamentale per decifrare il suo impatto. Nel 1970, l'America era una nazione lacerata. L'idea di un film che glorificava un generale "assetato di sangue" sembrava un'operazione reazionaria, un'apologia del complesso militare-industriale che i giovani contestavano nelle piazze. Eppure, Patton divenne un successo clamoroso, acclamato tanto dai "falchi" quanto, paradossalmente, da una fetta non indifferente delle "colombe". I conservatori, come il presidente Nixon che lo proiettò ossessivamente alla Casa Bianca prima di ordinare l'invasione della Cambogia, vi videro l'incarnazione della volontà di potenza americana, il leader spietato ma necessario. Ma la controcultura vi lesse qualcos'altro: un ribelle anarchico, un individualista irriducibile che disprezzava l'establishment (incarnato dal diplomatico e compassato Bradley di Karl Malden) tanto quanto il nemico. Patton, con le sue pistole dal manico d'avorio e la sua lingua tagliente, era un "freak" in uniforme, un anticonformista totale che combatteva il sistema dall'interno. Il film, quindi, si trasformò in una sorta di test di Rorschach per una nazione in piena crisi identitaria.
Schaffner, fresco del successo de Il pianeta delle scimmie, usa il formato panoramico Dimension 150 non per celebrare la grandezza della guerra, ma per isolare il suo protagonista. Patton è spesso una figura solitaria, incorniciata da paesaggi immensi e desolati: le sabbie del deserto, le rovine millenarie, le foreste innevate delle Ardenne. Questi non sono semplici sfondi, ma arene esistenziali in cui il generale combatte la sua vera battaglia, quella contro la modernità che lo rende superfluo. La sua concezione della guerra è omerica, un duello tra grandi condottieri, una prova di volontà e di kleos (la gloria immortale). Ma il mondo intorno a lui sta già cambiando. La guerra sta diventando una questione di logistica, di comitati, di alleanze politiche. Montgomery è un primattore calcolatore, Eisenhower un manager supremo. Patton, con il suo afflato quasi mistico, è l'ultimo sacerdote di un culto morente. La sua tragedia non è la sconfitta sul campo, ma la vittoria in un mondo che non ha più bisogno di lui.
In questo senso, Patton può essere letto come il cugino americano di un altro grande ritratto di un uomo fuori dal tempo, Lawrence d'Arabia di David Lean. Entrambi i film esplorano la psiche di leader carismatici e problematici, uomini che trovano la propria essenza nel caos della guerra e si smarriscono nella banalità della pace. Ma se il Lawrence di Peter O'Toole è una figura quasi eterea, un intellettuale lacerato dal dubbio, il Patton di Scott è un monolite di pura volontà, un Übermensch nietzschiano che non si interroga sulla moralità delle sue azioni, ma solo sulla loro efficacia estetica. Per lui, una manovra a tenaglia ben eseguita ha la stessa bellezza di una poesia.
Il film si chiude con un'immagine crepuscolare e malinconica: Patton, privato del suo comando, passeggia con il suo bull terrier Willie in una campagna tedesca pacificata. La guerra è finita. La sua grande epopea si è conclusa. Parla della gloria effimera, citando un condottiero romano: "Tutta la gloria è fugace". In quel momento, il generale d'acciaio si rivela per quello che è sempre stato: una reliquia, un fossile magnifico e terribile di un'era passata. Il mondo è andato avanti, e per i dinosauri come lui non c'è più posto. Patton non è un film sulla Seconda Guerra Mondiale. È un film sull'impossibilità di essere un eroe omerico nell'era della bomba atomica. È l'elegia per il dio della guerra, costretto a un esilio mortale in un mondo che ha scelto la pace non per virtù, ma per sfinimento. E in questa elegia, risiede la sua agghiacciante, intramontabile universalità.
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