L'Occhio che Uccide
1960
Vota questo film
Media: 0.00 / 5
(0 voti)
Regista
Un film geniale e controverso questo di Michael Powell che non mancò di subire gli strali della censura e di certa parte di una critica che non gli perdonò la truculenza del soggetto. La reazione fu, per usare un eufemismo, catastrofica: la stampa britannica lo bollò come "ripugnante", "malato", "perverso", arrivando a predirne la fine della carriera per il suo regista. Effettivamente, la sua opera successiva fu un film per bambini, quasi a voler lavare via l'onta di quell'audace immersione nelle acque più torbide dell'animo umano. Eppure, proprio questa ferocia del giudizio iniziale, quasi un linciaggio mediatico, è diventata col tempo la cartina di tornasole della sua radicalità e della sua ineluttabile modernità, un film maudit che ha saputo attendere il suo tempo per essere pienamente compreso e riabilitato, non ultimo grazie all'ardore di cinefili d'eccezione come Martin Scorsese, che ne hanno riconosciuto la lungimirante audacia.
Eppure Powell, con l’aiuto di un ottimo Leo Marks in sede di sceneggiatura – un uomo con un passato enigmatico nei servizi segreti e una sensibilità perversa per la psicologia umana che traspare in ogni riga – costruì qualcosa di veramente nuovo addentrandosi nelle più remote regioni della follia umana per trarne un lucido resoconto che non manca di affascinare. La scrittura di Marks, incisiva e quasi clinica, è un bisturi che seziona le pulsioni oscure, mentre Powell la traduce in immagini di abbacinante bellezza e morbosa precisione. Non è un horror nel senso convenzionale, né un semplice thriller psicologico; è piuttosto un'esplorazione meta-cinematografica della scopofilia, della perversione insita nell'atto di guardare, e del potere quasi sovrannaturale dell'obiettivo, capace di catturare non solo la realtà ma anche l'essenza stessa della paura e della morte.
Il personaggio emblematico è quello di Mark Lewis, timido e impacciato operatore cinematografico, che decide di filmare la morte negli occhi delle persone che sanno di morire. Ma Mark non è un semplice maniaco; è l'inquietante prodotto di un'infanzia traumatica, segnata dall'esperimento perverso e disumano del padre, un celebre scienziato che lo filmava incessantemente per studiarne le reazioni alla paura. Il film suggerisce, con inquietante efficacia, che l'ossessione di Mark per la morte altrui non è che la replica di un trauma subito, una forma distorta di auto-terapia o, peggio, l'unico modo che conosce per relazionarsi al mondo e al suo proprio, inespresso terrore. La cinepresa diventa così l'estensione del braccio paterno, un occhio che non solo registra ma anche punisce, una protesi della sua psiche frammentata.
Per fare questo trasforma la sua cinepresa in uno strano congegno mortale dotandola di una baionetta con la quale uccide e filma le sue vittime. Questo "congegno" non è solo uno strumento di morte, ma il fulcro di un'analisi agghiacciante sull'ontologia dell'immagine. Mark non vuole solo uccidere; vuole registrare la morte, catturare l'istante supremo della perdita di controllo, fissare per sempre su pellicola l'ultimo spasmo di terrore. Questo atto è un commento disturbante sulla natura voyeuristica del cinema stesso, sulla nostra stessa complicità nel guardare, nel consumare immagini violente. In un certo senso, Mark Lewis è il critico cinematografico più brutale, costringendo il suo pubblico (e se stesso) a confrontarsi con la crudezza dell'esistenza.
Parallelamente l’uomo continua a condurre una vita più che normale, fatta di sottomissione psicologica e di autismo sociale. Questa dicotomia è cruciale per la sua complessa caratterizzazione. Di giorno, Mark è l'introverso assistente operatore agli Shepperton Studios, un'anima solitaria che trova un flebile barlume di connessione umana solo nella sua vicina di casa, Helen, e nel suo rapporto quasi edipico con una madre cieca, ignara delle sue mostruose notti. La sua patologia si annida nella banalità del quotidiano, un mostro invisibile che cammina tra noi, rendendo il film ancora più perturbante. Powell ci mostra il lato non solo oscuro ma anche patetico della follia, dipingendo un Mark Lewis che è sia carnefice che vittima della propria condizione, imprigionato in un ciclo di coazione a ripetere, impossibilitato a spezzare le catene di un'educazione disumana.
Memorabile la scena iniziale: un uomo si avvicina in silenzio ad una prostituta che sta ammirando una vetrina, nasconde una telecamera sotto il cappotto, la donna fa cenno di seguirlo, la visuale passa in soggettiva e l’occhio della telecamera segue la donna fino a casa, fino ad inquadrare zoomando il viso atterrito della donna quando questa si accorge di essere in trappola. Questa sequenza non è solo un colpo di genio registico, ma un manifesto programmatico. Fin dai primi istanti, Powell ci cala nell'ottica distorta di Mark, trasformando noi spettatori in complici voyeuristici. La macchina da presa, inizialmente nascosta, diventa l'occhio del killer, e il nostro occhio di spettatori si fonde con il suo. È una sovversione radicale del punto di vista, che prefigura e supera in audacia molti dei futuri slasher, mettendo in discussione la passività del pubblico di fronte alla violenza su schermo. La transizione dal terzo al primo piano, dallo sguardo esterno a quello soggettivo, è un'immersione quasi viscerale nell'abisso della mente di Mark, un artificio che non solo genera terrore, ma ci costringe a riflettere sulla nostra stessa curiosità morbosa.
Splendido spin-off di un filone in bilico tra horror e thriller psicologico, un genere quasi inesplorato che Powell ebbe il merito di percorrere con l’immensa professionalità che lo contraddistingueva confezionando un’opera con idee e spunti veramente degni di nota. Uscito nello stesso anno di un altro capolavoro del terrore psicologico, Psycho di Hitchcock, "L'Occhio che Uccide" si distingue per la sua audacia stilistica e tematica, spingendosi dove Hitchcock si fermava sulla soglia. Se Norman Bates è un mostro che si nasconde dietro la normalità, Mark Lewis è la normalità stessa che si rivela mostruosa nell'atto di guardare e registrare. Il film di Powell non si limita a spaventare; destabilizza, interroga il ruolo del medium cinematografico, la nostra sete di immagini e la sottile linea che separa l'osservazione dalla complicità. È un'opera che ha precorso i tempi, influenzando generazioni di cineasti, dai registi del Giallo italiano a quelli del New Horror, e continua a risuonare potentemente oggi, in un'epoca in cui la riproduzione e la circolazione delle immagini è diventata onnipresente e pervasiva, rendendo la sua riflessione sul potere voyeuristico della camera più attuale che mai. Un autentico, inquietante capolavoro.
Attori Principali
Generi
Paese
Galleria





Commenti
Loading comments...