Perfect Blue
1998
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Regista
Ci sono film che si guardano e film che, inesorabilmente, ci guardano. "Perfect Blue" di Satoshi Kon è un membro eminente della seconda categoria: un abisso prismatico che riflette le nostre stesse ansie post-moderne con la precisione di un bisturi affilato. Liquidarlo come un semplice "anime" sarebbe un errore categoriale, un'eresia critica pari a confinare "2001: Odissea nello spazio" al reparto fantascienza per ragazzi. No, l'opera prima di Kon è un thriller psicologico che si insinua sotto la pelle, un saggio sulla frammentazione dell'identità nell'era della celebrità di massa, e soprattutto, una profezia agghiacciante sull'avvento del nostro presente digitale, scolpita nell'ambra del 1997.
La premessa, in superficie, è quasi un archetipo narrativo. Mima Kirigoe, idol di un trio J-pop chiamato CHAM!, decide di abbandonare le gonne a balze e i microfoni color pastello per inseguire il sogno di diventare un'attrice "seria". È un classico rito di passaggio, la crisalide che anela alla farfalla. Ma Kon, adattando il romanzo di Yoshikazu Takeuchi, non è interessato alla metamorfosi; è ossessionato dalla dissezione del processo, dal terrore della crisalide che, guardandosi allo specchio, non vede più sé stessa ma un fantasma sorridente che indossa ancora i vecchi vestiti. La transizione di Mima non è una liberazione, ma una discesa in un labirinto di specchi dove ogni riflesso è una versione ostile di sé.
La genialità di Kon si manifesta nel modo in cui traduce questo collasso interiore in linguaggio cinematografico. Le sue celebri transizioni, i match cut che fondono scene, sogni e set cinematografici in un flusso ininterrotto di coscienza, non sono un mero vezzo stilistico. Sono il motore epistemologico del film. Lo spettatore è costretto a condividere lo smarrimento di Mima, incapace di discernere la realtà dalla finzione, la sua vita dal copione della soap opera dark in cui recita, "Double Bind". In questo, Kon si rivela un discendente diretto non tanto di altri animatori, quanto di registi come Nicolas Roeg, la cui manipolazione del tempo e della percezione in "A Venezia... un dicembre rosso shocking" creava un'architettura del lutto e del presagio. Ma se Roeg frammentava il tempo, Kon frantuma l'io, costruendo un montaggio che è, a tutti gli effetti, la rappresentazione visiva di un disturbo dissociativo.
Il film è un dialogo serrato con i maestri del thriller psicologico. L'ombra di Hitchcock aleggia ovunque, da "Psycho", con la sua psiche scissa, a "Vertigo", con la sua ossessiva ri-creazione di un'immagine femminile ideale. Ma Kon porta il discorso un passo oltre. Il doppelgänger di Mima, la sua versione idol che la perseguita, non è solo una proiezione della sua colpa o della sua nostalgia; è un'entità quasi autonoma, alimentata dallo sguardo altrui. Qui emerge il parallelismo più profondo, quello con il concetto di "sguardo" che attraversa il cinema da "L'uomo con la macchina da presa" di Vertov a "Peeping Tom" di Powell. Mima è perennemente osservata: dai fan adoranti, dal suo stalker deforme (un "Me-Mania" che è la grottesca incarnazione del fandom tossico), dai produttori che la spingono a scene sempre più degradanti, e, in definitiva, da noi. Kon usa il mezzo stesso, l'animazione, spesso feticizzato e consumato da una cultura otaku che lui conosceva bene, per lanciare una critica feroce proprio a quella cultura, in un cortocircuito meta-testuale di rara potenza.
E poi c'è la profezia. Nel 1997, il web era un Far West di modem a 56k e pagine Geocities. Eppure, "Perfect Blue" anticipa con una lucidità terrificante l'era dei social media. Il sito "Mima's Room", un diario online scritto dal suo stalker con dettagli intimi e inquietanti, è l'antenato oscuro di un profilo Facebook o di un feed Instagram curato da un altro. È la dimostrazione di come la nostra persona digitale possa acquisire una vita propria, una "verità" percepita che finisce per sovrastare e invalidare la nostra esperienza vissuta. Mima legge di aver comprato il latte prima ancora di essere andata al supermercato, e il dubbio si insinua: chi è la vera Mima? Quella che vive la sua vita o quella che viene raccontata online? È la stessa domanda che Philip K. Dick ha posto per tutta la sua carriera letteraria: cosa resta dell'umano quando la realtà diventa un costrutto negoziabile? "Perfect Blue" è un romanzo di Dick travestito da anime, una discesa nella paranoia di un'identità rubata non da androidi, ma da bit e pixel.
Questa frammentazione dell'io, questa dissociazione tra il sé pubblico e il sé privato, trova un'eco inaspettata non nel cinema, ma nella letteratura modernista. La lotta interiore di Mima, il suo flusso di coscienza tormentato dalle voci del passato e dalle pressioni del presente, ricorda la sensibilità di una Virginia Woolf. Come Clarissa Dalloway vaga per Londra costruendo la sua identità attraverso i ricordi e le percezioni altrui, così Mima vaga per una Tokyo allucinata, la sua essenza definita e squartata dagli sguardi di migliaia di sconosciuti. Entrambe sono donne che performano un ruolo – la perfetta padrona di casa, la perfetta ex-idol – mentre dentro infuria una battaglia per l'autenticità. È un'analogia azzardata, certo, ma che rivela l'universalità del tema trattato da Kon: la prigione di un'identità imposta.
La produzione stessa del film è intrisa di una certa ironia. Kon, proveniente dal mondo dei manga al fianco di Katsuhiro Otomo, voleva creare qualcosa che si allontanasse dagli stereotipi dell'animazione. Il budget era risicato, e molte delle soluzioni visive più geniali nacquero dalla necessità di superare i limiti tecnici, spingendo Kon a un'inventiva formale che sarebbe diventata il suo marchio di fabbrica. Il risultato è un'opera che trascende il suo mezzo, un thriller così psicologicamente denso e visivamente sofisticato da essere stato saccheggiato a piene mani da registi in carne e ossa. Darren Aronofsky ha notoriamente acquistato i diritti di remake del film per poter ricreare shot-for-shot la scena della vasca da bagno in "Requiem for a Dream", e l'intera struttura narrativa di "Black Swan", con la sua ballerina che perde il senno sotto la pressione della performance, è un debito tanto palese da rasentare l'omaggio.
"Perfect Blue" è una danza macabra tra Eros e Thanatos, tra il desiderio di essere visti e la paura di essere consumati. È il racconto di come la cultura della celebrità, amplificata a dismisura dall'eco digitale, possa diventare un processo di auto-cannibalismo. Il twist finale, brutale e disperato, non è un semplice colpo di scena, ma la logica, straziante conclusione di un'indagine sulla proiezione e il desiderio di possesso. La domanda su chi sia il vero carnefice e chi la vera vittima si dissolve in un'ambiguità morale che lascia lo spettatore senza fiato. Quando, nell'ultima, liberatoria inquadratura, una Mima finalmente padrona di sé stessa si guarda allo specchietto retrovisore e dichiara "No, io sono quella vera", non è solo la fine del suo incubo. È una sfida lanciata a noi, spettatori del XXI secolo, perennemente connessi e costantemente in scena. In un mondo di avatar, filtri e narrazioni personali, quella domanda – chi è quello vero? – è diventata la questione esistenziale della nostra epoca. E il blu perfetto del titolo non è più il colore di un cielo innocente, ma il bagliore freddo e implacabile di uno schermo che ci fissa, in attesa di una risposta.
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