Movie Canon

The Ultimate Movie Ranking

Diario di un Ladro

1959

Vota questo film

Media: 0.00 / 5

(0 voti)

Robert Bresson è prima di tutto un artista che vuole conoscere l’uomo e per farlo ne indaga contorni psicologici, vizi, manie e spirito dialettico facendo uso del mezzo espressivo cinematografico come un potente microscopio. Un microscopio che non si limita a osservare, ma scarnifica, purifica, elimina ogni scoria drammatica convenzionale per raggiungere la nuda essenza dell’essere. Questa è la cifra del suo "cinématographe", un’arte della visione che si contrappone al teatro, spogliando gli "attori" della loro professionalità per farne "modelli", presenze pure e indifese di fronte all’obiettivo. È un approccio quasi spirituale, intriso di un misticismo giansenista che vede la grazia irrompere improvvisamente in un’esistenza altrimenti condannata.

Uno strumento che seziona, in ogni sua opera, una determinata tipologia di umanità disvelandone brillantemente il microcosmo. In Diario di un Ladro, Bresson ci immerge nell'abisso interiore di Michel, un giovane borghese parigino che per noia, o meglio, per un’inquietudine esistenziale profonda, e un perverso gusto del rischio, diviene uno dei più abili borseggiatori della città. La sua non è una discesa nel crimine dettata dalla necessità o dalla malvagità intrinseca, quanto piuttosto da una sorta di esperimento filosofico, una sfida lanciata alla società e, in ultima analisi, a se stesso. Un anelito dostoevskiano alla trascendenza attraverso la trasgressione, che ricorda da vicino la tormentata speculazione morale di Raskolnikov in Delitto e Castigo, un’opera che lo stesso Bresson riconosceva come fonte d’ispirazione fondamentale. Michel, come il suo illustre predecessore letterario, cerca una logica per la sua infrazione, un’auto-giustificazione che lo elevi al di sopra della comune moralità, trovando nel furto non un mezzo di sussistenza, ma una forma perversa di affermazione della propria libertà individuale in un mondo percepito come vuoto e privo di senso.

Il personaggio subirà una trasformazione morale e psicologica fedelmente documentata con una tecnica che, più che "quasi espressionista" nel senso tradizionale di rappresentazione esterna dell'emozione, è un'espressione della psiche ottenuta attraverso l'assoluto rigore formale. Bresson non cede a drammi esteriori; al contrario, la sua macchina da presa si fa quasi fenomenologica, concentrandosi sui dettagli: le mani che si allungano, gli occhi che guizzano, i piedi che si muovono. È attraverso questa parcellizzazione del corpo, questa frammentazione dell'azione e la voce fuori campo di Michel, confessionale e distaccata al tempo stesso, che si dipana il suo labirinto interiore. Ogni minimo gesto, ogni pausa, ogni suono ambientale (il fruscio dei vestiti, lo scatto di un portafoglio) è elevato a significante, contribuendo a rivelare la prigione mentale in cui il protagonista si è auto-recluso. Non è l'espressionismo delle ombre e dei chiaroscuri teatrali, ma quello di un’interiorità dolorosamente messa a nudo attraverso un’estetica della sottrazione.

L’amore per una ragazza madre, Jeanne, porterà quell’elemento di rottura, quella crepa nel muro di indifferenza e presunzione intellettuale, che farà crollare ogni certezza. Non è un amore passionale nel senso convenzionale, ma piuttosto una forma di grazia che si manifesta nella sua forma più semplice e disinteressata. Jeanne incarna la pazienza, la lealtà e un’accettazione incondizionata, elementi che contrastano radicalmente con l’isolamento e la fredda logica di Michel. La sua presenza, dapprima appena tollerata, diventa progressivamente l’ancora di salvezza, il punto di contatto con un’umanità autentica e compassionevole che Michel aveva strenuamente rifiutato. È un’epifania della carità cristiana, un’offerta di redenzione che si concretizza nella prigione, dove l’assenza di libertà fisica paradossalmente schiude la porta alla vera libertà interiore e all’accettazione dell’altro. La celeberrima frase finale, "Ah! Che strada lunga per arrivare fino a te!", pronunciata dopo anni di tormento e reclusione, suggella un percorso di purificazione che trova la sua catarsi in un abbraccio.

Un grande film che documenta l’uomo e il suo milieu, il personaggio e il suo palcoscenico. Le stazioni ferroviarie, le corse dei cavalli, le strade affollate di Parigi diventano non solo lo sfondo, ma quasi dei coprotagonisti muti, indifferenti e complici dell'attività di Michel. Sono i luoghi dell'anonimato, perfetti per l'esercizio della sua "arte" clandestina, e allo stesso tempo scenari che sottolineano la sua profonda solitudine in mezzo alla folla. L'ambiente è reso con un'essenzialità quasi documentaristica, priva di enfasi, che riflette la visione bressoniana di un mondo in cui il dramma si svolge nell'interiorità, mentre l'esterno rimane impassibile.

Celebri e indimenticabili sono le sequenze in cui Bresson illustra la tecnica necessaria per borseggiare impunemente. Queste scene, quasi un manuale visivo del "pickpocketing", sono girate con una precisione coreografica che le rende ipnotiche. Bresson, che si avvalse della consulenza di un vero borseggiatore professionista per garantire l'autenticità dei gesti, isola le mani, le tasche, gli sguardi complici, creando una sorta di balletto silenzioso, un rituale quasi sacro del furto. La macchina da presa si sofferma su questi dettagli con un’attenzione meticolosa, trasformando il crimine in un’abilità quasi artistica, un mestiere che richiede anni di dedizione e concentrazione. Queste sequenze non sono solo dimostrative; esse rivelano l'ossessiva ricerca di controllo di Michel, il suo tentativo di dominare il mondo attraverso la destrezza e l'intelletto, una ricerca vana che alla fine lo conduce alla sua caduta e, paradossalmente, alla sua salvezza. La maestria formale di Bresson in queste scene è tale che lo spettatore si ritrova quasi complice, ammaliato dalla precisione del gesto, dimentico per un istante della sua implicazione morale.

Diario di un Ladro è un’opera seminale, una pietra miliare nel cinema filosofico, che ha influenzato generazioni di registi, da Paul Schrader (la cui sceneggiatura per Taxi Driver è intrisa di risonanze bressoniane) a Ingmar Bergman, fino ai minimalisti contemporanei. La sua forza risiede nell'equilibrio tra l'estremo rigore stilistico e la profondità spirituale, una dialettica che fa di ogni inquadratura un'affermazione di fede nell'invisibile. È un film che sfida la nostra percezione del bene e del male, della libertà e della prigionia, e ci invita a cercare la grazia nei luoghi più inattesi. Magistrale.

Paese

Galleria

Immagine della galleria 1
Immagine della galleria 2
Immagine della galleria 3
Immagine della galleria 4
Immagine della galleria 5

Featured Videos

Trailer Ufficiale

Commenti

Loading comments...