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Pinocchio

1940

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Un abisso di perfezione tecnica separa Pinocchio da qualsiasi cosa lo abbia preceduto, e forse anche da molto di ciò che lo ha seguito. Se Biancaneve e i sette nani era stato il colpo di cannone che annunciava una rivoluzione, la favola del burattino di legno è la rivoluzione stessa, dispiegata in tutta la sua vertigine visiva. L'incipit del film, con la camera multi-piano di Ub Iwerks che fluttua sopra il villaggio tirolese e si insinua nella bottega di Geppetto, non è semplice animazione; è la creazione di un mondo respirante, un diorama vivente che possiede una profondità di campo e una tridimensionalità che il cinema live-action dell'epoca poteva solo sognare. Ogni singolo fotogramma è un'illustrazione degna di Arthur Rackham o Gustave Doré, ma infusa di un movimento così fluido e organico da trascendere la sua stessa natura artificiale. Paradossalmente, un film sulla brama di un essere artificiale di diventare reale è, a livello tecnico, la più superba e controllata affermazione dell'artificialità come forma d'arte.

Walt Disney e la sua squadra di artisti, ormai i "Nine Old Men" nel pieno della loro potenza creativa, non si limitarono a perfezionare le tecniche di Biancaneve; le elevarono a un livello di sofisticazione quasi barocca. La fisica del mondo di Pinocchio è tangibile. Si percepisce il peso massiccio e minaccioso di Stromboli quando sbatte i pugni sul tavolo, un trionfo di animazione di Bill Tytla che conferisce a un disegno una massa quasi scultorea. Si avverte il freddo umido dell'oceano nelle sequenze di Monstro, dove l'animazione degli effetti (onde, spruzzi, schiuma) raggiunge un realismo terrificante e sublime, anticipando la furia acquatica del Turner. La luce stessa diventa un personaggio: la polvere di stelle della Fata Azzurra non è un mero effetto, ma una fonte di illuminazione diegetica che proietta ombre morbide e credibili sui volti e sugli oggetti, un'attenzione al dettaglio luministico che l'animazione non aveva mai conosciuto.

Eppure, questa ossessione per il cesello tecnico serve a mascherare, o forse ad amplificare, un cuore di tenebra che pulsa appena sotto la superficie smaltata della favola. L'adattamento disneyano opera una metamorfosi cruciale rispetto al romanzo picaresco e crudelmente satirico di Collodi. Il Pinocchio letterario è un monello amorale, un pezzo di legno quasi intrinsecamente malvagio, e il suo mondo è una critica spietata all'Italia post-unitaria, piena di fame, ingiustizia e disillusione. Il Grillo Parlante originale viene schiacciato senza tante cerimonie dopo una singola, inascoltata predica. Disney, invece, trasforma la storia in un'allegoria morale universale, un Pilgrim's Progress per l'era del sonoro. Il Grillo, qui promosso a Jiminy Cricket e animato con l'incontenibile brio di Ward Kimball, diventa il centro gravitazionale etico del film, l'incarnazione di quella "coscienza" che il burattino deve imparare a coltivare. Questa è la grande invenzione disneyana: la moralità non è innata, ma è una conquista, un viaggio irto di pericoli esistenziali.

E che pericoli. L'orrore in Pinocchio non è accessorio, ma strutturale. Il film è una successione di trappole mortali per l'anima. La sequenza di Stromboli, con il burattino imprigionato in una gabbia per uccelli mentre il suo creatore lo minaccia di trasformarlo in legna da ardere, è un incubo sulla perdita della libertà e sull'oggettificazione dell'artista. Ma è nel Paese dei Balocchi che il film precipita in un territorio che lambisce l'espressionismo tedesco e il surrealismo di un Hieronymus Bosch. L'isola è un carnevale infernale, un luogo dove la licenza si trasforma in condanna. La scena della trasformazione di Lucignolo in asino è puro body horror, una delle sequenze più genuinamente perturbanti mai concepite in un film per famiglie. Il terrore non risiede solo nel cambiamento fisico, ma nel suono: l'urlo umano che si spezza in un raglio disperato, la perdita della parola, la cancellazione dell'identità. Il Postiglione, con il suo volto demoniaco che emerge dall'ombra, non è un semplice antagonista; è una figura satanica, un trafficante di anime infantili la cui malvagità non viene mai punita. Siamo lontanissimi dal rassicurante manicheismo di altre favole. Qui, il male è un'entità concreta, efficiente e terrificante.

Questo viaggio attraverso l'oscurità è, in fondo, una rielaborazione del mito di Frankenstein, ma depurato della sua rabbia prometeica e riletto in chiave sentimentale. Geppetto non è uno scienziato che sfida Dio, ma un artigiano solitario, un demiurgo benevolo il cui desiderio di paternità è così puro da evocare un intervento divino. La Fata Azzurra, con il suo design etereo e quasi Art Déco, non è una figura religiosa, ma una forza cosmica, un deus ex machina che innesca il potenziale di umanità nel legno inanimato. Pinocchio, quindi, non è un mostro abbandonato, ma una creatura a cui viene offerta una possibilità di redenzione. Per diventare "vero", non basta avere carne e ossa; deve dimostrare coraggio, onestà e altruismo, culminando nel sacrificio finale per salvare il padre dalle viscere del leviatano.

E che leviatano. Monstro non è una balena. È una forza della natura primordiale, una creatura lovecraftiana la cui immensità e indifferenza la rendono infinitamente più spaventosa di un cattivo con un movente. La sua apparizione, preceduta da un silenzio carico di terrore, è un capolavoro di messa in scena. Le sue dimensioni sfidano la comprensione, rendendo Pinocchio e Geppetto delle insignificanti particelle in un universo ostile. La battaglia per fuggire dal suo ventre non è solo un confronto fisico, ma una lotta contro il nichilismo, contro l'oblio che la creatura rappresenta. È il capitolo finale della formazione di Pinocchio, la sua discesa agli inferi e la sua resurrezione.

Uscito nel 1940, con l'Europa che sprofondava nella Seconda Guerra Mondiale, Pinocchio fu un insuccesso commerciale. Il mercato europeo, vitale per la Disney, era sigillato. Eppure, visto con gli occhi di quel tempo, il suo mantra – "lascia che la coscienza sia la tua guida" – assume una risonanza quasi disperata. In un mondo che stava cedendo agli istinti più bassi, alle tentazioni del totalitarismo e della violenza, il viaggio di un burattino per trovare la propria bussola morale diventava un'allegoria potente e necessaria. Il film stesso è un atto di fede: la fede nel potere dell'arte di creare bellezza e significato di fronte al caos, la fede nella possibilità di trascendenza anche per la più umile delle creature.

Pinocchio non è semplicemente il capolavoro tecnico della Golden Age disneyana. È un'opera filosofica travestita da intrattenimento per bambini, un'esplorazione complessa e a tratti terrificante della condizione umana. È un film che pone domande fondamentali – cosa significa essere "reali"? Dove risiede l'anima? – e suggerisce che la risposta non si trova nella biologia, ma nelle scelte che compiamo di fronte alla tentazione e alla paura. È un prodigio alchemico in cui pigmenti, acqua e cellulosa vengono trasmutati non solo in vita, ma in un'indagine profonda sulla natura stessa della vita. Un'opera d'arte totale, tanto perfetta nella sua forma quanto inquietante nella sua sostanza.

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