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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Prisoners

2013

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Un velo di pioggia gelida e perpetua sembra avvolgere il mondo di Prisoners, una Pennsylvania suburbana che ha smarrito ogni traccia del sogno americano per trasformarsi in una palude dell'anima. Non è un semplice artifizio meteorologico, ma il battesimo di un'opera che trascina lo spettatore in un abisso morale così profondo e oscuro da far impallidire i più cupi noir di David Fincher. Denis Villeneuve, qui al suo esordio in lingua inglese, non dirige un thriller. Orchestra una discesa agli inferi in piena regola, un trattato sulla corrosione dell'anima che assume i contorni di un dramma teologico, una parabola calvinista travestita da rapimento di bambini.

Il Giorno del Ringraziamento, festa per antonomasia della gratitudine e dell'unione familiare, si trasforma nel catalizzatore della dissoluzione. La scomparsa di due bambine innesca una reazione a catena che non si limita a svelare il male latente nella comunità, ma lo genera attivamente, contaminando i "buoni" con la stessa pece che cercano di combattere. Al centro di questo terremoto etico si erge Keller Dover, interpretato da un Hugh Jackman monumentale, la cui performance è una sinfonia di dolore primordiale e rabbia biblica. Dover è un survivalista, un uomo che crede nella preparazione, nel controllo, nella preghiera. Un carpentiere, non a caso, un costruttore. Ma quando il mondo che ha meticolosamente costruito crolla, la sua fede si trasforma: non più un dialogo con Dio, ma un monologo urlato contro il Suo silenzio assordante. La sua recita del Padre Nostro mentre infligge torture inimmaginabili al primo sospettato, un disturbante Paul Dano, non è un'invocazione, ma un esorcismo al contrario: un tentativo disperato di purificare un'azione impura, di santificare l'abominio.

In questo, Prisoners è profondamente dostoevskiano. Keller Dover è un Raskolnikov del ventunesimo secolo, un uomo che si arroga il diritto di superare la linea morale in nome di un fine superiore, la salvezza della propria figlia. Come il protagonista di Delitto e Castigo, è convinto che la sua trasgressione sia un male necessario, un atto eccezionale giustificato dall'impotenza delle istituzioni. Ma il film, come il romanzo, non è interessato a giustificarlo, bensì a sezionare la sua psiche tormentata. La cantina dove tiene prigioniero Alex Jones diventa il suo personale seminterrato dell'anima, un luogo dove la sua umanità viene sistematicamente smantellata, un pezzo alla volta, a ogni colpo di martello.

A contrapporsi a questa furia vigilante c'è il Detective Loki, un Jake Gyllenhaal che costruisce un personaggio indimenticabile attraverso dettagli minimalisti: un tic nervoso dell'occhio, un'eleganza quasi fuori luogo, tatuaggi esoterici che suggeriscono un passato tormentato. Loki rappresenta l'ordine, la procedura, la ragione. Eppure, anche lui è un prigioniero: del suo dovere, della sua ossessione, di un sistema che si rivela frustrantemente lento e inadeguato di fronte all'urgenza della tragedia. La sua indagine è un viaggio in un labirinto, un tema visivo e narrativo che percorre l'intera pellicola. I disegni di labirinti trovati sulla scena del crimine non sono solo un indizio, ma la mappa stessa del film: un percorso tortuoso senza un centro apparente, dove ogni vicolo cieco porta a un nuovo livello di orrore e disperazione.

La genialità di Villeneuve e dello sceneggiatore Aaron Guzikowski sta nel rifiutare la facile dicotomia tra l'istinto paterno di Dover e la razionalità procedurale di Loki. Non ci viene mai chiesto di scegliere da che parte stare. Anzi, il film ci costringe a occupare uno spazio scomodo, a interrogarci su cosa faremmo noi, spogliandoci delle nostre certezze etiche. È un'opera che affonda le sue radici nel clima socio-culturale dell'America post-11 settembre, un'allegoria potente e disturbante sulla moralità della tortura e sulla logica del "fine giustifica i mezzi" che ha permeato il dibattito pubblico per oltre un decennio. Senza mai menzionare esplicitamente la politica, Prisoners mette in scena il dilemma di una nazione che, di fronte alla paura e alla minaccia esistenziale, è stata tentata di sacrificare i propri principi fondanti sull'altare della sicurezza. Keller Dover non è solo un padre disperato; è l'incarnazione di una psiche collettiva spinta al limite, disposta a diventare il mostro pur di sconfiggerlo.

Visivamente, il film è un capolavoro di atmosfera opprimente, grazie alla fotografia di un Roger Deakins in stato di grazia. La sua palette di grigi, blu e marroni fangosi non è semplicemente desaturata, è prosciugata di ogni calore e speranza. La pioggia incessante non purifica, ma inzuppa e appesantisce ogni cosa, trasformando le villette a schiera in mausolei e i boschi in cattedrali gotiche di terrore. Deakins e Villeneuve intrappolano i personaggi in inquadrature claustrofobiche, spesso incorniciati da porte e finestre, sottolineando visivamente il tema della prigionia che dà il titolo al film. Tutti, in un modo o nell'altro, sono prigionieri: di un dolore, di un segreto, di una cantina, di un'ossessione, di una fede perversa.

E a proposito di fede perversa, il terzo atto del film, con la rivelazione del vero antagonista, eleva Prisoners da thriller eccezionale a riflessione quasi metafisica sul male. L'orrore non nasce dal sadismo o dalla follia, ma da una logica contorta, da una "guerra a Dio" nata da una tragedia passata. La banalità del male di Hannah Arendt trova qui una delle sue rappresentazioni cinematografiche più agghiaccianti. Il mostro non è un'entità aliena, ma una vicina di casa che offre il caffè, una figura materna la cui devozione si è tramutata in una blasfema crociata contro la fede altrui, creando orfani per "punire" un Dio che le ha tolto il figlio. È un'eco distorta e terrificante del cinema di Michael Haneke, dove la violenza irrompe nell'ordinario senza una spiegazione rassicurante, lasciando solo macerie psicologiche.

Il finale, di una crudeltà e di una perfezione assolute, si rifiuta di concedere la catarsi. Il fischietto di Dover, udito (forse) da Loki, lascia lo spettatore sospeso in un limbo di incertezza. Non è un cliffhanger, ma l'ultima, potentissima affermazione tematica del film. Dover, che ha agito al di fuori della legge, ora può essere salvato solo da essa. La sua sopravvivenza dipende da quell'istituzione che ha tanto disprezzato. Saremo capaci di salvare l'uomo che si è trasformato in un mostro per fare ciò che noi stessi, segretamente, avremmo forse voluto fare? La domanda non è se Loki lo salverà, ma se lo merita. E il film, saggiamente, non ci dà la risposta.

Prisoners non è un film facile da guardare, né da dimenticare. È un'esperienza fisica e intellettuale, un'opera che si insinua sotto la pelle e continua a porre domande giorni dopo la visione. Come in Mystic River di Eastwood, il trauma si propaga attraverso le generazioni, infettando il presente. Come in Se7en di Fincher, l'ambiente è un riflesso della depravazione morale. Ma a differenza di molti suoi predecessori, il film di Villeneuve non trova alcun conforto, neppure nella cupa accettazione del male. Ci lascia soli, nel fango e nel freddo, ad ascoltare il suono flebile di un fischietto, a interrogarci sui labirinti che costruiamo per noi stessi e sui mostri che potremmo diventare, pur di trovare una via d'uscita.

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