Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Profondo rosso

1975

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Un occhio meccanico, impersonale e predatorio, ci introduce in un teatro. Non un palcoscenico qualunque, ma il teatro anatomico della psiche, dove un trauma infantile si consuma nell'ombra, sigillato da una filastrocca agghiacciante e da un coltello che cade. È l'ouverture di una sinfonia della nevrosi, il prologo di un'indagine che non è tanto poliziesca quanto ontologica. Con Profondo Rosso, Dario Argento non si limita a codificare il Giallo all'italiana, genere di cui Mario Bava era stato il geniale e pittorico pioniere; lo trascende, lo contamina con la paranoia modernista di Antonioni e lo immerge in un barocchismo visivo che fa del dettaglio feticistico la chiave per decifrare l'abisso.

Il film è, prima di ogni altra cosa, un trattato sulla fallibilità dello sguardo. Il suo protagonista, il pianista jazz Marc Daly (un David Hemmings che è quasi un'eco del suo fotografo in Blow-Up), è il testimone per eccellenza: vede l'omicidio della medium Helga Ulmann, si precipita nell'appartamento, eppure gli sfugge l'essenziale. È convinto di aver visto tutto, ma il suo cervello, come la macchina fotografica di Thomas nel capolavoro antonioniano, ha registrato un'immagine incompleta, un enigma nascosto in piena vista. L'intera narrazione diventa così la cronaca di un disperato tentativo di "rimettere a fuoco", di ricostruire un puzzle mnemonico il cui pezzo mancante non è un'assenza, ma una presenza male interpretata. Se in Blow-Up l'ingrandimento fotografico rivelava una verità ambigua e forse inesistente, qui la ricerca di Marc è un'immersione freudiana nel rimosso, un viaggio all'indietro nel tempo per correggere una percezione errata. La soluzione non è in ciò che manca, ma in ciò che è stato guardato senza essere visto.

Argento orchestra questa caccia al dettaglio perduto con la precisione di un demiurgo sadico. La sua macchina da presa non è un semplice strumento di registrazione, ma un'entità senziente, un voyeur perverso che si insinua negli spazi, striscia sui pavimenti, spia da angolazioni impossibili e si sofferma con ossessione quasi pornografica sugli oggetti: il luccichio della lama, le biglie di vetro che rotolano, il volto di porcellana di una bambola meccanica. Ogni inquadratura è una composizione pittorica che sembra citare tanto le nature morte fiamminghe quanto le prospettive allucinate di De Chirico. La topografia urbana di Torino, con la sua architettura Liberty spettrale e le sue piazze metafisiche, cessa di essere una semplice location per diventare la proiezione esteriore dell'inconscio dei personaggi, un labirinto di facciate eleganti che nascondono corridoi marcescenti e segreti inconfessabili.

Il film respira l'aria viziata e paranoica dell'Italia degli Anni di Piombo. Non vi è un riferimento politico diretto, e sarebbe un errore cercarlo. L'angoscia non è ideologica, ma esistenziale. È la sensazione strisciante di un ordine sociale e morale in disfacimento, dove la violenza può erompere in qualsiasi momento, con una furia irrazionale e ritualistica. Gli omicidi in Profondo Rosso non sono atti funzionali a un obiettivo, ma performance macabre, esplosioni di una follia che ha radici profonde, private, quasi mitologiche. L'assassino non uccide: mette in scena la morte, la estetizza con una crudeltà che è al contempo infantile e ferocemente calcolata. In questo, Argento si rivela un meticoloso architetto dell'orrore, costruendo sequenze di suspense che dilatano il tempo fino a renderlo insopportabile, come nel lungo, magistrale pedinamento dello scrittore Amanda Righetti, dove ogni scricchiolio e ogni ombra diventano presagi di una fine inevitabile e spettacolare.

Fondamentale, in questa costruzione, è la dialettica tra il maschile e il femminile. Marc Daly è un intellettuale impotente, un artista perso nei suoi virtuosismi teorici, incapace di agire efficacemente nel mondo reale. È l'antitesi dell'eroe d'azione. Al suo fianco, la giornalista Gianna Brezzi (una Daria Nicolodi sfrontata e modernissima) rappresenta una femminilità nuova, emancipata, aggressiva, che prende l'iniziativa e sfida costantemente la fragile mascolinità di Marc. Il loro battibeccare continuo non è semplice commedia, ma il sintomo di un cambiamento culturale, lo scontro tra due mondi che faticano a comunicare. Tuttavia, anche questa figura femminile apparentemente forte non è immune alla violenza di un mondo che, in fondo, rimane patriarcale e predatorio.

E poi, c'è il suono. La collaborazione tra Argento e i Goblin è una di quelle congiunzioni astrali che definiscono un'epoca. La colonna sonora non accompagna le immagini: le assale. Il prog-rock martellante, con i suoi riff di basso distorti e le sue ritmiche dispari, irrompe nelle scene di tensione creando un cortocircuito sensoriale potentissimo. È una musica anacronistica e fuori luogo, che stride con l'eleganza formale delle immagini e proprio per questo ne amplifica l'effetto perturbante. Accanto a questo caos sonoro, la nenia infantile, semplice e terribile, agisce come una madeleine proustiana al contrario: non evoca un passato nostalgico, ma disseppellisce un trauma sepolto, diventando il leitmotiv sonoro della follia. L'orrore, ci dice Argento, ha il suono di una canzoncina per bambini.

Il campionario di bizzarrie che popola il film – il figlio effeminato e materno, la bambina sadica, il professore ossessionato dal folklore nero – non è un vezzo gratuito, ma contribuisce a creare un universo deviante, una galleria di "mostri" della normalità borghese. Ogni personaggio secondario sembra portare con sé un frammento della follia che infesta la narrazione. L'automa parlante che minaccia Marc non è solo un brillante jump scare, ma una metafora potentissima: è l'incarnazione meccanica del trauma, un passato che ritorna con la voce e i movimenti di un burattino senz'anima, anticipando la natura disumana e quasi robotica dell'assassino stesso. È un'eco diretta del perturbante freudiano, del terrore che nasce quando l'inanimato si anima, un richiamo letterario che va dai racconti di E.T.A. Hoffmann all'Uomo Meccanico di Fortunato Depero.

La risoluzione, infine, è un colpo di genio che riporta tutto al punto di partenza: lo sguardo. La verità non era in un quadro mancante, ma in uno specchio. Marc, e con lui lo spettatore, ha guardato per tutto il tempo il riflesso, la copia, scambiandola per la realtà. La rivelazione è un'epifania tanto semplice quanto sconvolgente, che costringe a rileggere l'intera pellicola sotto una nuova luce. Il profondo rosso del titolo non è solo il colore del sangue che sgorga a fiotti, ma il colore della memoria, una tinta primordiale che macchia la percezione e infetta il presente. Lo sguardo finale di Marc, riflesso nella pozza di sangue dell'assassino, chiude il cerchio. L'investigatore è diventato parte dell'orrore che ha svelato; ha guardato nell'abisso e l'abisso ha guardato dentro di lui, macchiando per sempre la sua retina. Profondo Rosso non è un film dell'orrore. È un saggio sull'orrore di vedere.

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