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Radiazioni BX Distruzione Uomo

1957

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Piccola perla, anzi, un vero e proprio diamante grezzo che tra le mani di un orafo sapiente quale Jack Arnold si è trasformato in un gioiello di rara fattura, risplendente nel pantheon spesso rozzo e sensazionalistico della fantascienza anni ’50. In un decennio dominato dalla paranoia atomica e dall'isteria anticomunista, dove gli UFO e le creature giganti proliferavano sui grandi schermi come funghi radioattivi – riflesso delle ansie di un'America in bilico tra il boom economico e il terrore nucleare – Radiazioni BX Distruzione Uomo (ahimè, quel titolo italiano!), pur nascendo dalle stesse fermentanti paure, si distinse per una profondità tematica e una sofisticazione narrativa che lo elevavano ben al di sopra della media, quasi anticipando le derive filosofiche che il genere avrebbe abbracciato decenni dopo.

Realizzato con un budget che oggi definiremmo irrisorio per gli effetti speciali, ma che all'epoca era gestito con l'ingegno tipico dell'epoca d'oro di Hollywood, il film fu nobilitato da una sceneggiatura intensa e incalzante, un vero tour de force di suspense psicologica e riflessione esistenziale. Non si trattava di un semplice adattamento, ma di un'incarnazione quasi perfetta del genio di Richard Matheson, che da un suo stesso romanzo, The Shrinking Man (1956), distillò un'opera cinematografica che manteneva intatta l'inquietudine e la lucida disperazione del testo originale. Matheson, maestro indiscusso del fantastico e dell'horror psicologico – basti pensare a Io sono leggenda, Duel, o ai suoi memorabili contributi alla serie televisiva Ai confini della realtà – infuse nel racconto un senso di ineluttabilità e un'analisi impietosa della fragilità umana, della sua insignificanza di fronte all'ignoto. A questa base solida si aggiunse la regia creativa e sagace di Jack Arnold, un artigiano visionario capace di elevare il B-movie a forma d'arte, come già dimostrato con Il mostro della laguna nera e Destinazione... Terra!. Arnold seppe sorprendere lo spettatore con soluzioni tecniche innovative – l'uso magistrale della prospettiva forzata, la costruzione di set sovradimensionati che trasformavano oggetti comuni in imponenti montagne, e l'integrazione di effetti visivi all'avanguardia per l'epoca come il matte painting e la retroproiezione – riuscendo a rendere tangibile l'idea dell’immensità schiacciante del mondo esperibile, che si manifesta progressivamente attorno al protagonista. Non era solo un trucco visivo, ma un veicolo per l'ansia, un'espressione del terrore ontologico che si annida nella perdita di ogni punto di riferimento.

Scott Carey, un uomo qualunque, simbolo della rassicurante normalità borghese americana degli anni '50, viene colpito da una misteriosa nube radioattiva, forse l'ombra lunga e invisibile della guerra fredda e degli esperimenti nucleari che aleggiavano sulla coscienza collettiva, trasformando la paura atomica da minaccia esterna a corrosione interna. Da quel momento, inizia la sua irreversibile discesa, un calvario fisico e psicologico: comincia gradualmente a perdere peso e statura, un processo inesorabile che lo strappa dal suo mondo, dal suo ruolo, dalla sua stessa definizione di 'essere umano'.

L'orizzonte del suo mondo non si restringe, paradossalmente, ma si allarga a dismisura, trasformando la familiarità domestica in un'ostile e incomprensibile distesa. Presto, la casa, santuario della quotidianità borghese, diverrà un vero e proprio campo di sopravvivenza, un'arena primordiale dove ogni oggetto, ogni elemento, assume proporzioni minacciose e titaniche. La lotta con il ragno, una delle sequenze più iconiche e claustrofobiche del film, non è un mero espediente di suspense; è la metafora perfetta della regressione dell'uomo moderno, ricondotto alla sua più nuda e vulnerabile essenza, costretto a confrontarsi con una natura non più dominata, ma selvaggia e indifferente, persino nel suo salotto. È il primato della biologia sulla civiltà, un richiamo al darwinismo più spietato, ma anche un'allegoria della solitudine cosmica e dell'assurdo di fronte a un destino predeterminato.

Splendide, anzi, imprescindibili per la loro risonanza emotiva e psicologica, sono alcune scene intermedie che scandiscono il drammatico processo di “decrescita”. L'impotenza, fisica e metaforica, è un filo rosso che attraversa il racconto con una sensibilità inaspettata per il genere: il fallimento sessuale con la moglie, emblematico della progressiva erosione della sua mascolinità e del suo ruolo di capofamiglia, è un momento di cruda e disarmante verità, che demolisce l'immagine dell'uomo onnipotente. La relazione, quasi una parentesi di dolceamara illusione, con la donna nana, un'anima affine nella sua devianza dalla norma sociale, è un tentativo disperato di aggrapparsi a un barlume di normalità e connessione umana, destinato anch'esso a dissolversi con l'inesorabile avanzare del suo destino. Questi momenti non sono semplici intermezzi, ma pilastri narrativi che mostrano l'impatto devastante della trasformazione sull'identità, sulle relazioni e sulla psiche di Scott, dipingendo un quadro di isolamento sempre più profondo, un'alienazione che ricorda la condizione dell'individuo kafkiano, intrappolato in una metamorfosi incomprensibile, o il Sisyphus camusiano che continua a spingere il suo masso verso l'inevitabile caduta.

Un’opera che non manca di spunti speculativi, anzi, ne è intrisa fino al midollo, elevandosi a parabola filosofica. L'impotenza umana dinanzi al progresso, o meglio, dinanzi alle sue conseguenze incontrollabili e inattese, è solo la punta dell'iceberg. Il film si spinge ben oltre il semplice monito sulla scienza impazzita, toccando corde esistenziali profonde. È un'esplorazione della fragilità dell'identità: cosa resta di un uomo quando il suo corpo, il suo ambiente, la sua percezione della realtà vengono sovvertiti al punto di renderlo un paradosso vivente? Il silenzio assordante del cosmo, l'indifferenza delle leggi fisiche, la vanità delle convenzioni sociali di fronte all'ineluttabilità della dissoluzione – sono questi i veri antagonisti di Scott Carey. La voce narrante interiore del protagonista, a tratti quasi beckettiana nella sua lucida disperazione e nella sua accettazione finale di un destino inconcepibile, trasforma la sua odissea in una meditazione sulla trascendenza e sulla posizione dell'uomo nell'universo. Dalle dimensioni insignificanti, Scott giunge a una comprensione quasi mistica della sua nuova, infinitesimalmente piccola, ma in qualche modo grandiosa, collocazione. La sua sparizione non è una sconfitta, ma una dissoluzione nell'infinito, una ricongiunzione con l'atomo primordiale, un'accettazione del fatto che la sua esistenza è parte di un ciclo ben più vasto e indifferente alle misere percezioni umane, un'illuminazione che annulla la paura e culmina in una lirica, quasi poetica, trascendenza. È la filosofia stoica che incontra la fisica quantistica, con risultati sorprendentemente lirici e profondi, che risuonano ancora oggi per la loro audacia intellettuale.

Film, purtroppo, deturpato da un titolo italiano – Radiazioni BX Distruzione Uomo – degno del più sguaiato e superficiale B-movie, un'etichetta grossolana che tradisce palesemente la profondità e l'eleganza di un'opera che, invece, merita di essere annoverata tra i capolavori della fantascienza di ogni tempo. Un errore di marketing che per decenni ha forse impedito a molti di avvicinarsi a un film che è in realtà un commovente e cerebrale viaggio nell'ignoto, un'epopea intima e universale che continua a risuonare potente nella sua disamina dell'identità, della percezione e del posto dell'uomo in un cosmo in continua espansione, o, nel caso di Scott Carey, in continua miniaturizzazione. Un classico che, al di là dei suoi trucchi, svela la verità più cruda e affascinante: non siamo al centro di nulla, ma parte di tutto, infinitesima eppure indispensabile, in un universo la cui grandezza è solo limitata dalla nostra capacità di percepirla.

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