Ran
1985
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Regista
Rilettura shakespiriana di Re Lear, Ran di Kurosawa ha da subito i crismi dell’opera cardinale. Non è una semplice trasposizione, ma una reinterpretazione radicale, imbevuta di un nichilismo che la distingue nettamente dall'originale elisabettiano. Kurosawa, pur riconoscendo il genio di Shakespeare, spinge i temi della tragedia oltre il punto di non ritorno, privando l'umanità di qualsiasi speranza o intervento divino, lasciandola sola con le conseguenze delle proprie efferatezze. Ran si erge come l'ultima, maestosa epopea del regista, un testamento definitivo alla sua visione grandiosa e disincantata della storia e della natura umana.
Intanto un’opera maestosa che coinvolge migliaia di comparse, costumi, filming locations, ricostruzioni storiche, anni di riprese e di lavoro di post-produzione per quasi tre ore di durata. Questa ambizione titanica non è solo un vezzo stilistico, ma il cuore pulsante della narrazione, un elemento che conferisce al dramma una gravitas quasi operistica. Si narra che Kurosawa abbia dedicato un decennio alla sola pre-produzione, dipingendo a mano ogni singolo storyboard come veri e propri dipinti, una meticolosità ossessiva che testimonia l'assoluta visione del regista e la sua intransigenza artistica. Le battaglie, pur orchestrate su scala epica con centinaia di cavalli e migliaia di samurai, mantengono una crudezza tangibile, priva della stilizzazione asettica tipica delle moderne produzioni digitali. Ogni collisione, ogni freccia che sibila nell'aria, risuona con un peso fisico e una dolorosa veridicità che solo l'impiego di mezzi reali, la maestria nella coreografia di massa e la scelta di filmare spesso in campi lunghi possono conferire, rendendo Ran un monumento all'arte cinematografica artigianale, un'impresa logistica e creativa quasi impensabile oggi.
Kurosawa si è detto rilegge Shakespeare ma lo fa accentuando i toni di follia e crudeltà di ogni singolo personaggio chiamato in causa. Laddove il Lear shakespeariano può trovare una sorta di catarsi nella sua pazzia e un barlume di redenzione nel legame con Cordelia, il Hidetora di Kurosawa è condannato a un'agonia senza alcuna via d'uscita, vagando in un deserto di rovine che egli stesso ha creato. La sua follia non è solo smarrimento mentale, ma la nuda esposizione di un'anima privata di ogni illusione, costretta a confrontarsi con la propria hybris e con l'inesorabile, cieco declino di un ordine. È una follia che non porta alla saggezza, ma solo a una più profonda e dolorosa consapevolezza del caos.
Tutte le vicende di Ran sono infestate da passioni violente che sfociano in contrasti titanici. È un dramma dove la dignità e l'onore, pilastri del codice samurai, cedono il passo a una sete di potere atavica, un'escalation di violenza e tradimento che non lascia scampo. Il film dipinge un'umanità corrotta dalla sua stessa avidità, destinata a un'autodistruzione ciclica e inevitabile, un tema ricorrente nell'opera kurosawiana (si pensi a Trono di Sangue), che qui raggiunge il suo apogeo di disperazione e fatalismo.
Ran, che in giapponese ha un significato ambivalente di caos e follia, è ambientato nel Giappone feudale del sedicesimo secolo. Questo periodo, noto come Sengoku Jidai (l'epoca degli stati combattenti), fu un'era di instabilità politica e incessante conflitto, un terreno fertile per le più atroci manifestazioni della natura umana. Il titolo stesso è una chiave di lettura e non un semplice riassunto della trama: non si tratta solo di una guerra civile, ma del disfacimento di ogni struttura, morale e sociale, un'entropia che inghiotte ogni cosa, dalle relazioni familiari all'integrità del regno, rispecchiando perfettamente l'anarchia intrinseca al periodo storico.
Un signorotto locale, in procinto di morire, divide il regno tra i tre ambiziosi figli. Con la spartizione del regno tuttavia si scatena una guerra fratricida che sfocerà in una sanguinosissima guerra civile. Il vecchio Hidetora, accecato dal suo stesso desiderio di riposo e dalla sua passata tirannia – avendo egli stesso conquistato il potere con estrema violenza – fallisce nel discernere la vera lealtà del figlio più giovane, Saburo, e sottovaluta la perfidia degli altri due, Taro e Jiro, scatenando una reazione a catena di vendette e tradimenti che non potrà più controllare.
Memorabile allora è la condanna del Signore alle basse passioni che sfociano nella brama di potere, monologo permeato di un’amarezza e di un cinismo senza via d’uscita. La sua discesa nella follia è un'epopea visiva e psicologica: lo vediamo vagare, muto e sconvolto, tra i resti fumanti delle sue ambizioni e delle sue fortezze incendiate, un re spogliato di tutto tranne che della sua disperazione. Le immagini di Hidetora, un tempo potente signore della guerra, ora solo un guscio vuoto in un mondo desolato, rimangono impresse per la loro desolante bellezza, quasi fossero scene di un'antica tragedia greca ambientata tra le rovine di un mondo impazzito.
Tra le tante scene una riaffiora alla memoria con più persistenza: Kurogane, un ufficiale dell’esercito di Jiro, affronta Lady Kaede, amante dello stesso Jiro, che lo ha spinto ad una guerra rovinosa manovrandolo a suo piacimento chiedendo alla donna spiegazioni sulla rovina della casata e ricevendo una risposta sprezzante: “era esattamente mia intenzione far cadere la casata di Jiro per vendicare la morte di mio padre”. La donna pronuncia la frase guardando con disprezzo e fierezza il militare. Lady Kaede non è semplicemente una figura vendicativa o una manipolatrice; è l'incarnazione di una furia ancestrale, una forza elementare che, come la stessa guerra, non conosce pietà né logica umana, animata da un'implacabile sete di giustizia per i torti subiti dalla sua famiglia. La sua bellezza glaciale cela una mente acuta e un cuore di pietra, rendendola una delle antagoniste più memorabili e perturbanti non solo del cinema di Kurosawa, ma dell'intera storia del cinema. La sua morte, violenta e repentina, è un atto quasi rituale di purificazione e al contempo un sigillo sul destino ineluttabile della dinastia Hidetora. Kurogane cala allora la sua katana sul niveo collo screziando di scarlatto il muro della stanza, ma la vendetta di Kaede è ormai compiuta. L'eco di quel taglio, il contrasto tra il candore della pelle e il rosso sangue, è un'immagine di pura arte pittorica, un haiku visivo di brutalità e fatalismo, un momento di stasi agghiacciante nel vortice di follia.
Un film denso di avvenimenti cupi, di figure crudeli e di narrazione epica alternata a raffinata indagine psicologica che impreziosisce ogni singolo fotogramma. Kurosawa non si limita a raccontare una storia, ma costruisce un universo visivo e sonoro di rara potenza, utilizzando il colore con una precisione quasi sinfonica e un simbolismo stratificato: l'oro della casata principale, il rosso ardente di Jiro, il blu gelido di Taro, il giallo vivace di Saburo. Queste tinte sgargianti non sono solo distintivi militari, ma simboli delle forze primarie in conflitto, che si scontrano in una tela di impressionante violenza e bellezza barocca. La sua regia, che alterna campi lunghissimi che annichiliscono la figura umana a primi piani di desolazione interiore e silenzi assordanti (come nelle sequenze di battaglia prive di musica, dominate solo dal vento e dal clangore dell'acciaio), trasforma il dramma shakespeariano in una meditazione universale sulla futilità della guerra, la fragilità del potere e l'inesorabile ciclo di violenza. Ran non è solo un film, ma un'esperienza catartica, un'opera che trascende il tempo e le culture per interrogare l'essenza stessa della natura umana, lasciando lo spettatore con un senso di ammirazione e un'inquietante consapevolezza della nostra intrinseca, tragica follia. È un capolavoro senza tempo, la summa del genio di un regista che ha saputo fondere l'epica orientale con la tragedia occidentale in un unicum insuperabile, destinato a risuonare per generazioni.
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