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Ritrovarsi

1942

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Un’elegia per i futuri perduti e le memorie imperfette. Il cinema, nella sua essenza più proustiana, non è forse altro che questo: una macchina per imbalsamare il tempo, per rivisitare i fantasmi di ciò che eravamo. E pochi film hanno saputo orchestrare questa malinconia con la precisione chirurgica e il cuore sanguinante di “Ritrovarsi” di Sydney Pollack. L’opera, vista oggi, appare come un reperto archeologico di un’era – la New Hollywood degli anni Settanta – che sapeva ancora coniugare il grande spettacolo romantico con una disillusione adulta, quasi spietata, ereditata dalle macerie del decennio precedente. Il titolo originale, "The Way We Were", è già una dichiarazione di intenti, un epitaffio scritto al passato prossimo.

Il film poggia interamente su un dittico speculare e inconciliabile, una collisione di forze cosmiche incarnate da due icone la cui alchimia sullo schermo trascende la semplice recitazione per diventare meta-commento. Da un lato, Katie Morosky (Barbra Streisand), ebrea newyorkese, attivista comunista, intellettuale febbrile e indomita. È un concentrato di spigoli, di passione politica che diventa etica personale, di una fede incrollabile nella Causa che la rende socialmente sgraziata, quasi goffa nella sua intransigenza. Non è bella secondo i canoni classici, ma la sua intelligenza è una fiamma che la rende magnetica e terribile. Streisand non interpreta Katie; è Katie, portando nel ruolo tutta la sua biografia di outsider di Brooklyn che ha conquistato Hollywood con la pura forza del talento e della volontà, contro ogni previsione estetica.

Dall'altro, Hubbell Gardiner (Robert Redford), l'epitome del "golden boy" WASP. Bello da far male, atleta, scrittore di talento quasi svogliato, baciato da una grazia naturale che rende ogni cosa, per lui, apparentemente facile. Hubbell è l'America sorridente, pragmatica, quella che non si sporca le mani con l'ideologia perché sa che, in fondo, tutto si riduce a compromessi e sopravvivenza. Incarna una sorta di pigrizia esistenziale, un desiderio di scivolare sulla superficie dorata della vita senza essere trascinato nelle sue torbide profondità. Redford, con la sua bellezza quasi astratta e il suo carisma rilassato, è la tela perfetta su cui proiettare questo ideale americano, tanto seducente quanto, in definitiva, vuoto.

Il loro incontro è uno scontro di civiltà, un paradosso narrativo degno di Henry James o Edith Wharton, se questi avessero ambientato i loro romanzi tra i campus universitari degli anni '30 e la Hollywood maccartista. È l'incontro tra la prosa complessa e febbrile di Philip Roth e la levigata, malinconica eleganza di F. Scott Fitzgerald. Katie vuole riscrivere il mondo; Hubbell vuole descriverlo magnificamente, ma da una distanza di sicurezza. La loro storia d'amore non è una fusione, ma una costante negoziazione di confini, un armistizio precario tra due visioni del mondo antitetiche. Pollack, da maestro del dramma psicologico, non giudica nessuno dei due. Mostra con lucidità straziante come l'amore, da solo, non possa colmare il baratro che separa l'etica dall'estetica, il principio dalla prassi.

Il vero terzo protagonista del film è la Storia. Arthur Laurents, sceneggiatore che attinge a piene mani dalle sue esperienze personali (compresa la sua relazione con l'attore Farley Granger e il suo calvario durante la Caccia alle Streghe), usa il passare dei decenni come un reagente chimico che rivela la vera natura dei personaggi. Si parte dall'idealismo febbrile degli anni '30, con gli studenti che manifestano contro Franco e la guerra in Spagna, un'epoca in cui la politica era ancora una questione di passione giovanile. Poi la Seconda Guerra Mondiale, che agisce da catalizzatore, un momento di unità nazionale che sembra poter appianare le loro differenze. Ma è nel dopoguerra, nella Hollywood paranoica del Comitato per le Attività Antiamericane (HUAC), che il loro legame va in frantumi.

Questa sezione del film è un capolavoro di scrittura e messa in scena. L'arrivo a Hollywood è per Hubbell un ritorno a casa, un ambiente dove il suo talento per la scrittura "facile" può prosperare. Per Katie, è un esilio in una terra di superficialità, un compromesso che accetta per amore. Ma quando la politica bussa alla loro porta dorata, il castello di carte crolla. La scena in cui Katie, incinta, scopre che Hubbell ha tradito non solo lei ma anche i suoi stessi, seppur deboli, principi, modificando una sceneggiatura per renderla più appetibile e meno "sovversiva", è il cuore nero del film. Il tradimento di Hubbell non è primariamente sessuale, ma etico. È la capitolazione finale della sua anima, la scelta della "via facile" che Katie, per sua stessa natura, non potrà mai perdonare né comprendere. La Caccia alle Streghe non è un semplice sfondo storico; è il test del carattere che Hubbell fallisce miseramente.

Sydney Pollack dirige con una classicità che oggi appare quasi rivoluzionaria. Non c'è un'inquadratura fuori posto, un vezzo autoriale che distragga dal nucleo emotivo del racconto. Il suo stile è invisibile e potente, al servizio completo della storia e degli attori. Si affida ai primi piani, ai silenzi, ai gesti minimi che rivelano mondi di dolore e rimpianto. È un cineasta che crede ancora nel potere del melodramma come strumento per indagare le grandi questioni dell'esistenza, filtrandole attraverso il prisma di una relazione sentimentale. In questo, si pone come erede diretto di George Stevens o William Wyler, ma con un'iniezione di cinismo e disincanto tipica della sua generazione.

E poi c'è la musica. La partitura di Marvin Hamlisch, e soprattutto la canzone "The Way We Were", non è un mero accompagnamento. È l'anima stessa del film, un'onda di nostalgia che sommerge lo spettatore fin dalle prime note. È un'arma emotiva di una potenza devastante, che trasforma ogni scena in un ricordo ancor prima che sia finita. La canzone agisce come la madeleine di Proust, un grilletto sensoriale che evoca non solo la storia di Katie e Hubbell, ma anche i fantasmi personali di ogni spettatore, i propri amori perduti, le proprie battaglie ideologiche abbandonate. È la colonna sonora della resa.

Il finale è tra i più perfetti e strazianti della storia del cinema. Anni dopo, Katie e Hubbell si incontrano per caso a New York, davanti al Plaza Hotel. Lei è ancora un'attivista, distribuisce volantini per il bando delle armi nucleari. Lui è con una nuova compagna, bella, bionda, semplice. Perfetta. In quei pochi minuti, Pollack condensa tutto il film. Non c'è rabbia, non c'è recriminazione. Solo un'infinita, abissale tristezza. Il dialogo è scarno, quasi banale. Ma i loro sguardi dicono tutto. Quando lui, in un gesto istintivo e tenerissimo, le scosta i capelli dalla fronte ("Your girl is lovely, Hubbell"), sta accarezzando il fantasma di tutto ciò che hanno avuto e perso. È il riconoscimento che il loro amore era reale, ma anche che la sua fine era inscritta nel loro DNA, inevitabile come la gravità. Lei lo invita a bere qualcosa, un ultimo, disperato tentativo di fermare il tempo. Lui rifiuta. Non possono tornare indietro. La memoria è tutto ciò che resta.

"Ritrovarsi" è molto più di una storia d'amore. È un saggio cinematografico sulla memoria, sul compromesso e sull'impossibilità di conciliare l'impegno politico con la quiete borghese. È una riflessione amara sulla traiettoria dell'America del Ventesimo secolo, dall'idealismo radicale degli anni '30 alla disillusione pragmatica del dopoguerra. È il ritratto di due Americhe, quella che lotta per cambiare il mondo e quella che vuole solo goderselo in pace, destinate ad amarsi follemente e a non potersi appartenere mai. Un capolavoro crepuscolare, la cui bellezza struggente, come i ricordi migliori, diventa più nitida e dolorosa a ogni visione.

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