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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Sabrina

1954

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La fiaba, come archetipo, ha una grammatica inflessibile. Esige una principessa in attesa, un principe azzurro e un ostacolo da superare prima del fatidico "e vissero felici e contenti". Ma cosa accade quando il demiurgo di questa narrazione è Billy Wilder, un esule viennese la cui visione del mondo era stata forgiata nel crogiolo del cinismo europeo e affinata nello spietato sistema degli studios di Hollywood? Accade che la fiaba viene smontata, analizzata pezzo per pezzo e riassemblata in una forma nuova, scintillante in superficie ma percorsa da una corrente sotterranea di malinconica saggezza. Accade Sabrina.

A prima vista, il film è una variazione sul tema di Cenerentola così pura da sfiorare il plagio mitologico. Sabrina Fairchild (Audrey Hepburn), la figlia dell'autista dei ricchissimi Larrabee, vive letteralmente sopra il garage, una posizione che è una sineddoche geografica della sua condizione sociale. Dall'alto dei rami di un albero, spia le feste sfarzose della tenuta, innamorata del figlio minore, il playboy David (William Holden), un uomo la cui esistenza è un susseguirsi di matrimoni falliti e flirt superficiali. L'altro figlio, Linus (Humphrey Bogart), è l'esatto opposto: un monolite di pragmatismo capitalista, un uomo che programma la sua vita come un'OPA e il cui unico interesse amoroso è l'indice Dow Jones. La trasformazione di Sabrina, da ragazza goffa a icona di sofisticatezza parigina, è il catalizzatore che mette in moto la macchina narrativa.

Ma è proprio qui che Wilder, coadiuvato dalla penna affilata di Ernest Lehman, inizia la sua operazione di sovversione. Il viaggio di Sabrina a Parigi non è solo un cambio di guardaroba – sebbene l'intervento di Hubert de Givenchy sia a dir poco epocale, un'alleanza stilistica che avrebbe definito un'intera epoca – ma un'autentica mutazione epistemologica. A Parigi, Sabrina non impara solo a preparare un soufflé perfetto, impara a vivere. "Ho imparato a vivere nel mondo, invece di vivere in un mondo tutto mio", confessa. In una scena meravigliosa, cita un "poeta morboso" che le ha insegnato ad aprire le finestre per far entrare il "dolce e triste suono della vita cittadina". È un'eco lontana, quasi impercettibile, di un esistenzialismo Rive Gauche filtrato attraverso il glamour hollywoodiano. Sabrina non torna come una Cenerentola che ha trovato la scarpetta di cristallo; torna come un'americana che ha scoperto Henry James, un'innocente che ha visto l'Europa e non può più guardare Long Island con gli stessi occhi.

Il film, quindi, si trasforma in un triangolo amoroso che è in realtà un conflitto tra due visioni del mondo. David Larrabee rappresenta un'aristocrazia del tempo libero, un edonismo che il boom economico del dopoguerra americano poteva ancora permettersi, ma che Wilder dipinge già come obsoleto, quasi infantile. I suoi bicchieri di champagne incastrati nelle tasche della giacca sono il simbolo di una spensieratezza destinata a infrangersi. Linus, al contrario, è il futuro. È l'incarnazione della Corporate America, un uomo per cui persino il matrimonio del fratello è una fusione aziendale, un tassello in un affare multimiliardario che coinvolge la canna da zucchero e una plastica rivoluzionaria. Il suo corteggiamento a Sabrina non nasce dal sentimento, ma da una precisa strategia di mercato: distrarre la ragazza per salvare l'accordo. È un'acquisizione ostile del cuore.

È impossibile discutere di Linus senza affrontare la leggendaria questione del casting. Bogart, cinquantacinquenne, con il volto segnato da una vita di ruoli da duro e da un consumo non trascurabile di sigarette e alcol, appare visibilmente a disagio nel ruolo di un amante romantico accanto a una Hepburn venticinquenne e radiosa. La sua celebre scontrosità sul set, il suo disprezzo per Holden e Wilder sono materia di cronaca. Eppure, paradossalmente, è proprio questo scollamento a rendere il personaggio e il film così potenti. Se al suo posto ci fosse stato Cary Grant, la scelta originale di Wilder, Sabrina sarebbe stata una commedia romantica impeccabile, levigata, perfetta. Con Bogart, diventa qualcosa di più strano e profondo. La sua stanchezza, la sua ruvidezza, la sua totale incapacità di incarnare l'eroe romantico convenzionale trasformano la sua conversione all'amore in un evento quasi tragico. Non è un principe che si risveglia, ma un uomo d'affari sull'orlo del burnout che intravede, per la prima volta, un'alternativa al suo arido mondo di cifre e contratti. La sua goffaggine nel corteggiare Sabrina (la finta gita in barca, la lettera dettata e poi strappata) non è quella di un timido, ma quella di un uomo che sta imparando una lingua straniera dopo una vita passata a parlare solo il linguaggio del profitto.

A questo si aggiunge la meta-narrazione quasi crudele della vita reale. Sul set, era William Holden ad avere una relazione appassionata con Audrey Hepburn. La chimica tra loro è palpabile, elettrica. Quando David dice a Sabrina "Tu non vuoi la luna... vuoi un razzo per arrivarci", c'è un'urgenza che trascende la finzione. Wilder, da maestro manipolatore qual è, utilizza questa tensione a suo vantaggio. Costringe lo spettatore a fare una scelta intellettuale – quella per Linus, l'uomo che offre stabilità e un futuro – contro una scelta istintiva ed emotiva – quella per David, l'uomo che offre passione e presente. Il film ci dice che Sabrina sceglie Linus, ma i nostri occhi vedono la scintilla con Holden. In questo scarto risiede il genio agrodolce del film. La fiaba si conclude come deve, ma ci lascia con il dubbio che la felicità, forse, fosse da un'altra parte.

Stilisticamente, Sabrina è un monumento a quello che Wilder aveva imparato dal suo mentore, Ernst Lubitsch. Il "Lubitsch Touch" – quella capacità di suggerire più di quanto si mostri, di usare l'eleganza e l'arguzia per alludere a verità più profonde e spesso più scabrose – è presente in ogni dialogo. Quando il padre di Sabrina le dice "La democrazia non è solo avere il diritto di voto, è anche il diritto di mandare la propria figlia a Parigi", sta condensando l'intero mito dell'American Dream e della mobilità sociale in una battuta fulminante. La sceneggiatura è un meccanismo a orologeria di battute perfette e osservazioni acute sulla classe, il denaro e l'amore, trattati come merci intercambiabili.

Inserito nel suo contesto, Sabrina è un perfetto documento degli anni '50. L'America di Eisenhower, opulenta e sicura di sé, che guarda alla vecchia Europa come a un serbatoio di cultura e raffinatezza da cui attingere per nobilitare la propria ricchezza materiale. La villa dei Larrabee non è un castello antico, ma una fortezza moderna del capitalismo, con campi da tennis al coperto e garage pieni di auto di lusso. Eppure, sotto questa superficie patinata, Wilder introduce un elemento di caos, un "fattore sentimentale" che rischia di mandare all'aria l'intero sistema. Sabrina, con la sua ritrovata joie de vivre e la sua citazione di "La vie en rose", è un virus benevolo che infetta il mondo asettico di Linus, costringendolo a riconsiderare i propri assiomi.

Il finale, con Linus che cambia i suoi piani all'ultimo minuto per raggiungere Sabrina sulla nave diretta a Le Havre, è puro artificio, una concessione deliberata alle regole del genere. Lo stesso Linus ammette che la sua decisione non ha senso dal punto di vista logico-commerciale. È la vittoria dell'irrazionale sul razionale, del cuore sulla calcolatrice. Wilder ci regala il lieto fine che desideriamo, ma ce lo presenta come tale: una bellissima, necessaria finzione. Il film non ci chiede di credere che un magnate possa cambiare natura in un'ora e mezza, ma ci invita a goderci l'idea che possa accadere. È una fiaba per adulti, per persone che sanno che il mondo è governato dai Linus Larrabee, ma che scelgono, per la durata di un film, di sperare in un mondo dove anche loro possano imparare a navigare verso Parigi senza un motivo apparente. E in questa scelta, in questa sospensione dell'incredulità orchestrata con intelligenza suprema, risiede l'incantesimo immortale di Sabrina.

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