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Salvatore Giuliano

1962

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Un corpo giace come un orrido trofeo in un cortile di Castelvetrano, provincia di Trapani, mentre la voce anaffettiva di un funzionario ne descrive gli squallidi particolari con precisione tassonomica. Questa disarmante apertura, quasi un incipit da referto medico-legale, imposta immediatamente il tono disincantato e implacabile dell'opera di Francesco Rosi. Non c'è romanticismo, non c'è pietà, solo la cruda esposizione di una verità che si vuole oggettiva, ma che si rivelerà stratificata e multiforme, proprio come un'indagine forense sui misteri di una nazione.

Ricoperto di sangue se ne distingue il viso fiero, appartiene ad un uomo che popolò l’immaginario di ogni siciliano per oltre un trentennio: il bandito Salvatore Giuliano. L'immagine, potente nella sua statica violenza, evoca un'iconografia quasi mitologica del "re di Montelepre", ma Rosi è qui per decostruirla, per esporre la violenza come sintomo di un male più profondo, non come mera manifestazione individuale. Giuliano, lungi dall'essere il "Robin Hood" di Sicilia o l'eroe romantico dipinto da certa narrativa popolare, diviene, sotto lo sguardo acuto del regista, il crocevia di poteri occulti, di interessi che superano di gran lunga la sua pur sanguinosa epopea. Il film non è tanto su Giuliano l'uomo, quanto su Giuliano il catalizzatore, il pretesto per svelare una verità più grande e più scomoda.

Incomincia così questo straordinario film di Rosi, forse il culmine della sua arte e della sua parabola registica. E in effetti, è proprio qui che il cinema di Francesco Rosi, in un bianco e nero di abbagliante precisione fotografica che ricorda tanto il rigore documentaristico quanto l'asciutta bellezza del miglior neorealismo, raggiunge una maturità formale e contenutistica ineguagliata. Se il neorealismo aveva insegnato a guardare la realtà con occhio spoglio e partecipe, Rosi ne riprende l'eredità per trascenderla, trasformando la cronaca in "inchiesta", il racconto in un'anatomia sociale e politica. Salvatore Giuliano non è solo un film sulla mafia o sul banditismo; è un'indagine meticolosa sulla natura del potere, sulla sua capacità di corrompere, manipolare e infine annientare chiunque si trovi sul suo percorso, sia esso un bandito o un innocente contadino.

Tramite flashback viene ricostruita la vita del bandito e strettamente sovraordinata la vita della Sicilia dagli anni 30 agli anni 50: i rapporti della mafia con il potere istituzionale, la repressione statale sui più deboli, le connivenze e le contraddizioni di una terra magnifica infestata di parassiti senza dignità. La struttura narrativa, frammentata e non lineare, si rivela un colpo di genio, riflettendo la natura elusiva e manipolata della "verità" in un contesto in cui la reticenza e l'omertà sono legge. Non è una biografia lineare quella che Rosi ci propone, ma un mosaico di eventi, testimonianze, retroscena che si incastrano per dipingere un affresco cupo e disincantato della Sicilia post-bellica. Il montaggio, teso e implacabile, guida lo spettatore attraverso i meandri di un'isola dove la bellezza selvaggia delle campagne e delle montagne fa da sfondo a una violenza endemica, quasi geologica. Il paesaggio stesso diviene un personaggio muto, complice e spettatore di tragedie secolari, la cui aridità non è solo fisica, ma morale. Questa "terra magnifica infestata di parassiti senza dignità" è un organismo vivente malato, e il banditismo di Giuliano ne è solo uno dei sintomi più appariscenti, non la causa ultima. Rosi svela come la mafia, lungi dall'essere un'organizzazione parallela, sia intessuta nella trama stessa dello stato, un "anti-stato" che si nutre delle sue debolezze e delle sue collusioni, un tema che il cinema italiano avrebbe poi esplorato in profondità con autori come Elio Petri o Damiano Damiani.

Memorabili le scene del sanguinoso eccidio dei contadini a Portella della Ginestra, il primo maggio del quarantasette, una macchia indelebile nella storia italiana. Il culmine drammatico, e forse morale, del film è senza dubbio la ricostruzione di questa strage. Rosi non si limita a mostrarci la carneficina; ci fa sentire la disperazione, il terrore di quei contadini che festeggiavano il Primo Maggio, la loro ingenua fiducia in un futuro di riscatto sociale, brutalmente spezzata dal piombo. La sequenza è girata con una potenza visiva e sonora che toglie il fiato: l'eco degli spari che si perdono nel vento, i corpi che cadono, il silenzio agghiacciante che segue la furia. È un momento di cinema puro, di forza documentaristica che eleva la tragedia a monito universale, un monito sulla fragilità della democrazia e sulla persistenza di poteri oscuri capaci di sacrificare vite innocenti sull'altare dei loro interessi. L'abilità di Rosi sta nel rendere palpabile l'orrore senza mai cadere nel sensazionalismo, mantenendo quella distanza critica che è la cifra stilistica dell'intera opera.

Rosi non esprime mai giudizi morali, il suo è un freddo lavoro di documentazione, quasi un cronista celato nelle pieghe della storia che riporta a noi i fatti nella loro spietata crudezza. Questa scelta stilistica, quella di un "cronista celato", è ciò che distingue Rosi da molti altri registi che hanno affrontato temi sociali o storici. Non c'è didascalismo, non c'è tesi precostituita, se non quella di esporre la complessità dei fatti e delle loro interconnessioni. È un approccio che anticipa e definisce il "cinema civile" italiano, di cui Rosi diventerà il maestro indiscusso, influenzando generazioni di cineasti. Pensiamo a film come Le mani sulla città o Cadaveri eccellenti, dove la stessa implacabile logica investigativa smonta i meccanismi del potere corrotto. Rosi non giudica, ma mostra; non condanna, ma rivela. Lascia allo spettatore il compito di trarre le proprie conclusioni, di confrontarsi con una realtà scomoda che troppo spesso è stata edulcorata o mistificata. Per questo, Salvatore Giuliano non è solo un film storico, ma un saggio visivo, un'opera di filosofia politica applicata, che indaga le responsabilità collettive e individuali in una catena di eventi fatali. La sua "freddezza" è in realtà un'ustionante lucidità. Le performance degli attori, molti dei quali non professionisti reclutati sul posto, come l'imponente Frank Wolff nel ruolo dell'agente dei Carabinieri Gaspare Pisciotta (che recita con un'impressionante naturalezza), o di professionisti dal calibro di Salvo Randone, contribuiscono a questa autenticità quasi documentaristica, sfumando il confine tra finzione e realtà e rafforzando l'illusione di trovarsi di fronte a un'autentica inchiesta giornalistica.

Un film che scuote violentemente le coscienze e che rimane uno dei momenti più alti del cinema italiano. Sessant'anni dopo la sua uscita, l'opera mantiene intatta la sua potenza di scossa, rivelando strati su strati di verità scomode e interconnesse. È un monumento cinematografico che non invecchia, un faro che continua a illuminare le ombre di un paese che ancora fatica a fare i conti con il proprio passato e con le persistenti dinamiche di potere. In un panorama cinematografico spesso incline al racconto facile o alla spettacolarizzazione, Salvatore Giuliano si erge come un baluardo di intelligenza critica, di rigore morale e di indagine estetica. È un capolavoro che non si limita a narrare una storia, ma invita alla riflessione, al dubbio metodico, al disvelamento di quelle verità celate che sono alla base di ogni esercizio del potere. Un film imprescindibile, non solo per chi studia la storia d'Italia o il cinema, ma per chiunque cerchi nel grande schermo uno specchio capace di riflettere, senza filtri, la complessa e spesso dolorosa condizione umana.

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