Sciuscià
1946
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Regista
De Sica, un anno dopo Roma Città Aperta che plasmò il neorealismo, fa sua la lezione di Rossellini e realizza un’opera splendida, dibattuta tra amore per il popolo e cruda narrazione. La lezione rosselliniana, intesa come imperativo morale e stilistico di aderire alla realtà post-bellica, viene qui interiorizzata e sublimata da De Sica attraverso un’umanità dolente, quasi leopardiana, che permea ogni inquadratura. Laddove Rossellini forse prediligeva una registrazione quasi documentaristica, un occhio distaccato ma compassionevole, De Sica aggiunge una vena di commozione profonda, un empatico abbraccio verso gli ultimi, che si traduce in una narrazione ancor più straziante e sentita. Non è semplicemente cronaca, ma un’elegia della sofferenza infantile.
Il nuovo movimento cinematografico vuole liberarsi da tutti gli orpelli di maniera che avevano caratterizzato l’epoca fascista per raccontare la realtà nuda e cruda, senza finzioni né artifici (si pensi ai barocchismi del neoclassicismo e a tutto il retaggio di realtà artefatta che portarono con sé). Questa liberazione non fu solo estetica, ma etica. Si trattava di smantellare l'edificio retorico e falsamente ottimistico del ventennio, il cosiddetto "cinema dei telefoni bianchi" con le sue commedie borghesi evadenti e i drammi artificiosi, per confrontarsi con le macerie – fisiche e morali – lasciate dalla guerra. Il neorealismo, con la sua predilezione per riprese in esterni, attori non professionisti e una fotografia spesso cruda, quasi documentaristica, non era mera scelta stilistica, ma una dichiarazione d'intenti: il cinema doveva farsi testimone, coscienza critica di una nazione in ginocchio, ma non per questo priva di dignità.
Le storie neorealiste nascono, vivono e si esauriscono nel popolo. In Sciuscià, questo "popolo" è incarnato dalla figura più vulnerabile e innocente: il bambino. Giuseppe e Pasquale, i due piccoli lustrascarpe, sono metafora vivente di un’Italia ferita, una generazione perduta, costretta a crescere troppo in fretta tra le rovine di un mondo adulto che l'ha tradita. Non sono eroi, ma sopravvissuti, le cui esistenze precarie diventano un grido muto contro l'ingiustizia e la povertà che dilaniava il dopoguerra romano. La loro storia non è un caso isolato, ma l'emblema di migliaia di destini simili, un collettivo dolente che il cinema neorealista si prefiggeva di svelare e, in qualche modo, riscattare.
Due giovani napoletani lustrascarpe (o sciuscià, contrazione dell’inglese shoe shine) decidono di imbarcarsi in un losco affare con il conseguente risultato di finire in carcere. Quel "losco affare" non è che un tentativo disperato e ingenuo di racimolare i pochi soldi necessari per realizzare un sogno infantile: acquistare un cavallo, simbolo di libertà, forza e innocenza, un'aspirazione quasi messianica in quel contesto di desolazione. La loro caduta non è dovuta a malizia, ma a una concatenazione fatale di ingenuità, circostanze avverse e una giustizia distorta, cieca di fronte alla loro età e alla loro disperazione. È un'accusa al sistema carcerario, un'istituzione che invece di rieducare, distrugge l'anima, trasformando la speranza in rancore, l'innocenza in trauma irrimediabile.
Inizierà per loro un percorso catartico che li spoglierà dell’infanzia per gettarli bruscamente nel mondo degli adulti. Ma questa non è una catarsi liberatoria, bensì una discesa agli inferi, un'annichilente perdita dell'innocenza. Le mura del riformatorio diventano il palcoscenico di un dramma psicologico di rara intensità, dove l'amicizia sacra tra Giuseppe e Pasquale viene metodicamente erosa, vittima di un sistema punitivo che sfrutta le loro debolezze e la loro lealtà per opporli l'uno all'altro. La fame, il freddo, le violenze subite dagli altri detenuti e l'incomprensione degli adulti corrodono il legame fraterno, trasformando l'amore in sospetto, il sostegno in ostilità. È un processo di disintegrazione che porta all'inevitabile tragedia finale, un epilogo di shakespeariana intensità, dove la morte accidentale di uno diventa il sigillo della definitiva condanna dell'altro, un'immagine straziante che imprime nel cuore la brutalità della realtà. Non si tratta più solo di lustrascarpe, ma di anime calpestate, simboli di un'intera generazione perduta nel caos post-bellico.
Risalto particolare all’ottima sceneggiatura di Cesare Zavattini e al fine lavoro di cesello di De Sica con la macchina da presa. Il contributo di Zavattini è fondamentale; la sua teoria del "pedinamento" della realtà, dell'attenzione al quotidiano più banale per rivelarne la straordinaria complessità umana, trova in Sciuscià una delle sue massime espressioni. La sceneggiatura evita ogni retorica, ogni eccesso melodrammatico, per concentrarsi sulla verità dei piccoli gesti, delle espressioni mute, degli sguardi perduti. De Sica, da parte sua, si rivela un direttore d'orchestra sublime, capace di dirigere un cast di non professionisti, in particolare i due giovanissimi protagonisti Rinaldo Smordoni e Franco Interlenghi, con una sensibilità e una precisione quasi chirurgica. La sua regia non è mai invasiva, ma sempre presente, con inquadrature che esaltano la desolazione degli ambienti, la nudità delle emozioni, la potenza silente dei volti. La fotografia di Anchise Brizzi, con il suo bianco e nero contrastato, non solo cattura la miseria del dopoguerra, ma scolpisce la dignità e la sofferenza sui volti dei bambini, rendendo ogni fotogramma una testimonianza visiva indimenticabile.
Un’opera che ha fatto risplendere il nostro cinema e di cui andiamo fieri. Sciuscià non è stato solo un successo di critica e pubblico al momento della sua uscita, ma ha valso all'Italia il primo, storico, Special Oscar per il Miglior Film Straniero, ben prima che la categoria fosse istituita formalmente. Questa onorificenza internazionale ha consacrato il neorealismo italiano come movimento di punta, un faro stilistico e morale per il cinema mondiale. La sua influenza si sarebbe estesa ben oltre i confini italiani, ispirando generazioni di cineasti, dalla Nouvelle Vague francese al Free Cinema britannico, fino a toccare le cinematografie emergenti del Terzo Mondo. Ancora oggi, la sua potenza emotiva e la sua implacabile onestà lo rendono un capolavoro intramontabile, un monito universale sulla fragilità dell'innocenza e sulla brutalità delle ingiustizie sociali, un'opera che continua a parlare al cuore e alla coscienza di chiunque vi si accosti.
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