Scomparso. Missing
1982
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Regista
Un cavallo bianco, terrorizzato e senza cavaliere, galoppa lungo un viale deserto nel cuore della notte. È un’immagine surreale, un frammento di panico onirico che squarcia il velo di un ordine apparente, imposto dal coprifuoco e dal rombo incessante degli elicotteri. Questa apparizione, degna di un dipinto di De Chirico riletto da un Goya sotto shock, è la chiave di volta estetica e semantica di Scomparso (Missing), il capolavoro del 1982 di Costa-Gavras. Non è un semplice dettaglio di colore, ma l'epifania di un caos che ha divorato la logica, la sintesi perfetta di una nazione deragliata dalla storia, dove persino gli animali partecipano all'incomprensibile tragedia degli uomini.
Il film, formalmente, si presenta come un thriller politico, un’indagine sulla sparizione del giornalista e scrittore americano Charles Horman durante il colpo di stato cileno del 1973. Ma ridurre Missing a un’etichetta di genere sarebbe come definire Il Processo di Kafka un semplice romanzo poliziesco. Costa-Gavras, già maestro del cinema d'inchiesta con l'elettrizzante Z - L'orgia del potere, qui rallenta il ritmo, abbassa la temperatura emotiva e scava più a fondo. L'indagine esteriore diventa un pretesto per una discesa agli inferi, un viaggio nel cuore di tenebra non di una giungla esotica, ma della burocrazia diplomatica e della Realpolitik. Il protagonista di questo viaggio non è un avventuriero, ma la figura più anti-eroica che si possa immaginare: Ed Horman, interpretato da un Jack Lemmon monumentale, in una delle performance più strazianti e misurate della storia del cinema.
Ed Horman è l'Americano con la A maiuscola, un uomo d'affari della Christian Science, conservatore, metodico, convinto della rettitudine incrollabile della propria nazione e delle sue istituzioni. Quando arriva a Santiago per cercare il figlio, di cui non approvava lo stile di vita "bohémien" e le idee progressiste, porta con sé un bagaglio di certezze granitiche. Si aspetta risposte, efficienza, un modulo da compilare per riavere indietro ciò che è suo. Ad attenderlo trova la nuora, Beth (una Sissy Spacek intensa e trattenuta), che ai suoi occhi incarna tutto ciò che non capisce della generazione del figlio: idealismo, disordine emotivo, una visione del mondo complessa e critica. L'incontro tra i due non è solo un’alleanza forzata dalla tragedia, ma uno scontro filosofico, generazionale e politico. Beth ha già capito; Ed deve ancora imparare. Lei è la sua Sibilla cumana, la guida riluttante in un purgatorio di uffici consolari e ministeri militari dove il linguaggio è un’arma di depistaggio e la verità è una merce di contrabbando.
Qui il film abbandona i binari del thriller convenzionale per trasformarsi in un incubo kafkiano. La ricerca di Charles si arena in un labirinto di sorrisi di circostanza, rassicurazioni vuote e dinieghi plausibili. Gli ufficiali americani, con la loro cortesia gelida e le loro promesse evasive, diventano i custodi di un castello inaccessibile, le cui regole sono imperscrutabili. Ogni porta a cui Ed bussa lo conduce a un altro corridoio, ogni richiesta di informazioni genera solo altra carta. Costa-Gavras filma questa odissea burocratica con una precisione quasi documentaristica, ma il suo vero genio sta nel far percepire il terrore che si annida sotto la superficie della normalità. La violenza del regime non è quasi mai mostrata direttamente; è un'entità spettrale, evocata dal suono onnipresente degli spari in lontananza, dai posti di blocco, dai volti impauriti della gente comune, e soprattutto, dal silenzio. È il cinema del non visto, del fuoricampo che diventa più terrificante di qualsiasi immagine esplicita.
La struttura narrativa del film, co-scritta da Costa-Gavras e Donald E. Stewart (che vinsero un meritatissimo Oscar), è un assemblaggio di frammenti, un mosaico incompleto. Attraverso i flashback, evocati dai racconti di Beth e di altri testimoni, ricostruiamo gli ultimi giorni di Charles. Non lo vediamo mai come una vittima passiva, ma come un osservatore acuto, un uomo che, come il protagonista de L'Avventura di Antonioni, svanisce lasciando un vuoto che ridefinisce l'esistenza di chi resta. La sua assenza diventa il catalizzatore della trasformazione di suo padre. Ed inizia il suo viaggio per "trovare Charles", ma finisce per "trovare la verità" su Charles, e di conseguenza, sul proprio mondo. La scoperta più dolorosa non è la morte del figlio, ma la consapevolezza che le istituzioni in cui ha sempre creduto non sono solo impotenti, ma complici. È il crollo di una fede, la morte dell'innocenza americana che Graham Greene aveva già magistralmente raccontato in Un americano tranquillo. Ed Horman è l'americano meno tranquillo di tutti, un uomo la cui fede nel sistema viene sistematicamente smantellata, pezzo per pezzo.
La sequenza allo Stadio Nazionale di Santiago è forse il punto più alto del film, un momento di cinema puro che trascende la narrazione. Ed e Beth vagano in questo enorme catino trasformato in campo di concentramento, chiamando il nome di Charles in un silenzio assordante, rotto solo dall'eco delle loro voci. L'architettura stessa, progettata per il giubilo e la celebrazione collettiva, diventa un monumento alla disumanizzazione, un non-luogo dove migliaia di vite sono state ridotte a numeri in attesa di un destino. L'inquadratura di Lemmon, piccolo e fragile in mezzo a quelle gradinate vuote, è l'immagine di un uomo solo di fronte all'immensità inconcepibile del male organizzato.
Meta-testualmente, Missing può essere letto come un precursore del cinema "screenlife" o "found footage", ma in una forma analogica e intellettuale. Ed e Beth sono come due detective che cercano di montare un film (la vita di Charles) da spezzoni di pellicola sparsi (le testimonianze), cercando un senso in un montaggio caotico e pieno di ellissi. Ogni ricordo è una scena, ogni testimonianza una take diversa, e la verità finale non è una rivelazione catartica, ma un montaggio finale agghiacciante, confermato da un burocrate di basso livello in un obitorio che sembra un archivio dell'orrore.
La colonna sonora di Vangelis, lontana dai toni trionfali di Momenti di gloria, è un tappeto sonoro malinconico e spettrale. Le sue note elettroniche non sottolineano l'azione, ma creano uno stato d'animo, un lamento funebre per una generazione di idealisti e per un'idea di democrazia tradita. È la musica del vuoto, del lutto che non trova pace.
Uscito in piena era reaganiana, Missing fu un atto di straordinario coraggio politico. Nonostante non nomini mai esplicitamente il Cile o Pinochet (una scelta che, paradossalmente, universalizza la storia rendendola applicabile a ogni "desaparecido" del mondo), il riferimento era chiarissimo e causò controversie e cause legali da parte di funzionari del Dipartimento di Stato. Ma il film non è un pamphlet. La sua forza non risiede nella denuncia politica, per quanto potente, ma nel suo nucleo profondamente umano. È la storia di un padre che impara a conoscere e rispettare suo figlio solo attraverso la sua assenza, riconoscendo in lui un coraggio e un'integrità che non gli aveva mai attribuito. La scena finale, in cui Ed Horman, ormai un uomo spezzato ma consapevole, presenta una causa legale contro il suo stesso governo, non è un finale di vittoria. È l'inizio di un'altra battaglia solitaria e probabilmente persa in un altro tipo di labirinto, quello legale. La sua trasformazione è completa: il patriota è diventato un dissidente.
Missing è un film che lavora per sottrazione. Sottrae il protagonista, sottrae la violenza esplicita, sottrae le risposte facili, sottrae la catarsi. Ciò che resta è un vuoto assordante, lo spazio lasciato da una persona scomparsa, che diventa lo specchio in cui un uomo, e con lui un'intera nazione, è costretto a guardare il proprio volto deformato. È un capolavoro desolato e necessario, un thriller dell'anima che ci ricorda come la più grande delle sparizioni sia, a volte, quella della verità.
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