Scritto sul vento
1947
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Regista
Pochi film bruciano con la stessa, lussuosa e disperata intensità di Scritto sul vento. Sotto la patina abbagliante del Technicolor, nell'opulenza soffocante di una dinastia petrolifera texana, Douglas Sirk orchestra non un semplice melodramma, ma una vera e propria autopsia dell'American Dream, un'opera lirica sulla putrescenza dell'anima. Guardare oggi il capolavoro di Sirk del 1956 significa assistere a un frontale ad alta velocità tra la mitologia del successo e la realtà della vacuità umana, il tutto filmato con la grazia perversa di un esteta che trova la bellezza più accecante proprio nell'epicentro del disastro morale.
Sirk, esule tedesco fuggito dal nazismo, portò a Hollywood lo sguardo disincantato dell'espressionismo di Weimar, camuffandolo dietro le convenzioni del più rassicurante dei generi americani. I suoi film sono cavalli di Troia: all'esterno presentano le storie patinate e le passioni travolgenti che il pubblico dell'era Eisenhower desiderava, ma al loro interno celano una critica spietata alla società dei consumi, al patriarcato e all'ipocrisia borghese. Scritto sul vento è forse l'apice di questa strategia sovversiva. La trama, tratta da un romanzo mediocre di Robert Wilder, è puro materiale da soap opera: il rampollo alcolizzato e insicuro di una famiglia di petrolieri, Kyle Hadley (un Robert Stack magnifico nella sua fragilità nevrotica), sposa la sofisticata segretaria Lucy Moore (Lauren Bacall, l'incarnazione della razionalità gettata in un mondo irrazionale). Il migliore amico di Kyle, il solido e virtuoso Mitch Wayne (Rock Hudson, monolite di integrità morale), ama segretamente Lucy. A completare il quartetto disfunzionale c'è la sorella di Kyle, Marylee (una Dorothy Malone da Oscar, fiammeggiante e indimenticabile), ninfomane disperata e consumata da un amore incestuoso per Mitch.
Quello che in mani minori sarebbe stato un intreccio pruriginoso, in quelle di Sirk diventa un'allegoria potente. Gli Hadley non sono solo una famiglia disfunzionale; sono il prodotto terminale del capitalismo sfrenato. Hanno ottenuto tutto – ricchezza, potere, status – ma hanno perso ogni cosa che abbia valore: amore, fertilità (la sterilità di Kyle è il simbolo più crudele di questa bancarotta spirituale), scopo. La loro villa non è una casa, ma un mausoleo dorato, uno spazio scenico dove i personaggi sono intrappolati come insetti nell'ambra. Sirk usa l'architettura e l'arredamento in modo quasi brechtiano: le scalinate immense, i saloni gelidi, gli specchi onnipresenti che riflettono e frantumano le identità, tutto sottolinea l'artificialità e la prigionia. La ricchezza non ha liberato gli Hadley, li ha condannati a recitare eternamente una parodia della felicità. In questo, la loro tragedia non è dissimile da quella dei Compson di Faulkner, un'altra grande dinastia del Sud la cui grandezza passata si sgretola in un presente di decadenza e disperazione.
Ma è l'uso del colore a elevare il film al rango di capolavoro assoluto. Il direttore della fotografia Russell Metty, sotto la guida di Sirk, non si limita a catturare la realtà; la dipinge, la esaspera, le conferisce un'architettura emotiva. Ogni tinta è un significante. Il giallo tossico della decappottabile di Kyle è il colore della sua malattia, della sua gelosia e della sua impotenza. Il rosso scarlatto dell'auto e degli abiti di Marylee è il fuoco della sua libido frustrata e distruttiva. Il blu freddo e rassicurante che spesso circonda Mitch ne sottolinea la stabilità, quasi noiosa nella sua perfezione. In Scritto sul vento, il Technicolor non è un vezzo estetico, è il linguaggio primario del film, un codice che svela le turbe interiori che i dialoghi, spesso volutamente banali, cercano di nascondere. È un'ipertrofia cromatica che anticipa la Pop Art, trasformando gli oggetti del desiderio consumistico (auto, vestiti, case di lusso) in feticci carichi di un'angoscia mortale.
La sequenza più celebre, quella della danza mambo di Marylee, è una sintesi perfetta del metodo sirkiano. Sconvolta dalla morte del padre, Marylee si scatena in un ballo selvaggio e disperato, con un vestito rosso fuoco, nella sua stanza, davanti a una foto del defunto genitore. È una scena che trasuda un erotismo funereo, un misto di lutto, ribellione edipica e pulsione di morte. Non è realistica, è operistica. È l'equivalente visivo di un'aria di follia, un'esplosione di puro id che squarcia il velo delle convenzioni sociali. Dorothy Malone non sta semplicemente recitando; sta compiendo un rituale psicomagico, incarnando tutta l'energia repressa del Sogno Americano che, non trovando sfoghi costruttivi, si tramuta in veleno.
Il film può essere letto anche come un "noir a colori". Se il noir classico esplorava le ombre della psiche umana attraverso il bianco e nero espressionista, Sirk fa qualcosa di ancora più radicale: mostra l'oscurità morale in piena luce, sotto i colori più abbaglianti. La violenza psicologica, le ossessioni sessuali, la paranoia e la disperazione esistenziale sono le stesse del noir, ma il loro campo di battaglia non è più il vicolo buio di una metropoli, bensì il salotto immacolato dell'alta borghesia. Kyle Hadley, con la sua pistola e la sua bottiglia, non è così diverso da un antieroe chandleriano, solo che il suo nemico non è un gangster, ma il fantasma del proprio fallimento.
L'influenza di Sirk è carsica e immensa, un fiume sotterraneo che ha nutrito alcuni dei più grandi autori del cinema moderno. Senza la sua estetica dell'eccesso controllato, non avremmo il Rainer Werner Fassbinder di Le lacrime amare di Petra von Kant, che ha dichiarato esplicitamente il suo debito verso il maestro tedesco. Non avremmo i melodrammi fiammeggianti di Pedro Almodóvar, che ha ereditato da Sirk la capacità di mescolare kitsch e tragedia, superficie pop e profondità emotiva. E, più di tutti, non avremmo Todd Haynes, il cui Lontano dal paradiso (2002) è un omaggio così filologicamente perfetto a Sirk da funzionare quasi come un saggio critico in forma di film.
Rivedere Scritto sul vento oggi significa comprendere che la critica più efficace non è sempre quella urlata, ma quella sussurrata attraverso un linguaggio estetico sublime. Sirk ci mostra un mondo di persone bellissime in luoghi bellissimi che vivono vite orribili. Ci seduce con la superficie per poi costringerci a guardare l'abisso che si nasconde appena sotto. È un film che, come suggerisce il titolo, parla di passioni tanto intense quanto effimere, di fortune costruite sulla sabbia e destinate a essere spazzate via dal primo colpo di vento. Un vento che non è una forza della natura, ma il respiro gelido del vuoto che si annida nel cuore opulento dell'America. Un capolavoro la cui vernice brillante, a quasi settant'anni di distanza, non si è scrostata di un millimetro, rivelando anzi, a ogni visione, nuove, crudeli e magnifiche crepe.
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