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Solaris

1972

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In Italia questo film fu letteralmente massacrato dalla distribuzione: tagliato di 50 minuti ed etichettato come la risposta sovietica a 2001 Odissea Nello Spazio di Kubrick, un autentico abominio. Un accostamento infausto, frutto di una miopia culturale che riduceva l'arte a una sterile competizione geopolitica, snaturando completamente l'essenza di due opere pur magnifiche ma profondamente diverse. Laddove 2001 era un'esplorazione glaciale e quasi matematica dell'evoluzione cosmica e dell'intelligenza artificiale, un viaggio nella mente logica del supercomputer HAL 9000 e un'interrogazione sull'ontologia dell'uomo nel confronto con l'alieno trascendente, Solaris si rivela tutt'altro: un'immersione soffocante nel labirinto della coscienza, un'odissea non verso le stelle ma nel cuore stesso dell'essere umano. La stessa reazione di Andrei Tarkovsky al film di Kubrick, da lui ritenuto "sterile" e "asettico", sottolinea questa divergenza filosofica radicale tra la visione occidentale del progresso scientifico e la profonda spiritualità e umanità che permea il cinema del maestro sovietico.

Un’opera complessa imperniata sul grande romanzo di Stanislaw Lem di cui ne restituisce ogni stilla di malinconico disincanto miscelato ad un angoscia crescente per l’ignoto. Sebbene Lem stesso fosse notoriamente critico dell'adattamento di Tarkovsky, ritenendolo troppo incentrato sulle passioni umane e poco sull'indagine epistemologica e l'ignoto scientifico – per lui, il film avrebbe dovuto essere un "paradigma della non-conoscenza" – è proprio in questa "deviazione" che risiede la grandezza e l'originalità dell'opera di Tarkovsky. Egli non mira a replicare l'algida, speculativa perfezione del romanzo, bensì a infonderla di un'anima dolente, a radicarla nel terreno fertile del rimpianto e del senso di colpa, trasformando il mistero cosmico in un abissale, straziante dramma interiore.

La stazione orbitante intorno al pianeta Solaris ha registrato diversi problemi culminati con il suicidio di uno dei tre membri dell’equipaggio. Anche gli altri due membri hanno subito una qualche influenza nefasta visto che danno evidenti segni di pazzia. Il dottor Kris Kalvin, psicologo di chiara fama, viene inviato ad investigare. L’uomo si renderà conto che il pianeta è in grado di far apparire i ricordi degli uomini rendendoli carne e parole. Non semplici ologrammi o allucinazioni, ma vere e proprie entità fisiche, "visitatori" generati dalla psiche, destinati a tormentare e riflettere le paure e i desideri più reconditi dei loro creatori involontari. Dovrà così affrontare la moglie scomparsa anni prima per un suicidio rivivendo il tremendo senso di colpa che lo lega alla vicenda. Questa non è solo una rielaborazione del lutto, ma una tortura esistenziale, un interrogatorio senza fine sulla natura della realtà, dell'identità e della memoria. Inizierà un lungo viaggio attraverso una realtà non definita, intessuta di sogno e memorie passate, dove i confini tra ciò che è tangibile e ciò che è meramente psichico si dissolvono in un’agonia metafisica.

Una tematica, quella di Lem, molto simile allo scollamento del piano reale di Philip K. Dick. Piano onirico e piano reale si compenetrano dando vita ad una sorta di piano intermedio in cui gli uomini si dibattono aspramente per cercare di determinarne la topologia. Come in Ubik si ha continuamente la netta sensazione di annaspare tra le nebbie di un sogno per poi rendersi conto che si sta lottando per la propria vita. Questa labilità del reale, cifra stilistica e filosofica tanto di Dick quanto di Tarkovsky, ci getta in un limbo dove la percezione è ingannevole e la verità sfuggente. È un’eco della fragilità della psiche umana di fronte all’infinito ignoto, un topos che attraversa l’arte e la filosofia, dalle caverne platoniche alle inquietudini post-freudiane sul "doppio" e sulla memoria come ricostruzione. Tarkovsky, con la sua maestria visiva e la sua audace sperimentazione narrativa, amplifica questa disintegrazione della realtà, immergendo lo spettatore in un'atmosfera sospesa, quasi liquido-onirica, dove il tempo stesso sembra dilatarsi e contrarsi in un respiro ancestrale.

Il suo cinema è un’esperienza quasi tattile. Le lunghe, ipnotiche sequenze, i silenzi eloquenti interrotti solo dal ticchettio della pioggia o dal fruscio del vento, l’uso magistrale del colore e del monocromo che si alternano come stati di coscienza, creano un universo filmico dove l’estetica si fonde indissolubilmente con la riflessione spirituale. Pensiamo ai primi minuti del film, alla dacia immersa nel verde lussureggiante, alla pioggia che batte sulla finestra, al ruscello: immagini di una terra viva, pulsante, di una memoria sensoriale primordiale, che contrastano violentemente con la sterilità metallica e le geometrie fredde della stazione spaziale, trasformando il film in una meditazione sulla nostalgia, sulla perdita di ciò che è umano e organico. È un viaggio non solo nello spazio, ma nel tempo e nella memoria, un’ode malinconica alla caducità e alla bellezza fragile dell’esistenza terrena. Ogni inquadratura è una tela dipinta con luce e ombra, in cui il dettaglio assume una valenza simbolica smisurata, elevando la narrazione a un livello quasi mistico e ponendo Solaris al fianco di altre pietre miliari del cinema d'autore che indagano l'interiorità umana con pari profondità, come certe opere di Bergman o Bresson.

Un film che non esitiamo a definire un capolavoro metafisico, un’opera che trascende i generi per imporsi come indagine profonda sulla natura dell’anima umana. Non è fantascienza nel senso tradizionale, ma una tragedia esistenziale mascherata da epopea spaziale, un’esplorazione delle profondità della colpa, dell’amore e del ricordo. È un’opera che ti afferra non con gli effetti speciali, né con l'azione spettacolare, ma con la forza delle sue idee, con la sua inesorabile bellezza e il suo lancinante dolore. Tarkovsky non fornisce risposte, ma pone domande essenziali, lasciando lo spettatore a vagare in quei "piani intermedi" della coscienza, a confrontarsi con i propri fantasmi e le proprie verità inconfessabili. Un'esperienza visiva e intellettuale che, a oltre cinquant'anni dalla sua creazione, continua a risuonare con una potenza rara, dimostrando come il cinema possa essere un veicolo non solo di intrattenimento, ma di autentica, sconvolgente rivelazione.

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