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Sorrisi di una notte d'estate

1955

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Prima che il Cavaliere giocasse a scacchi con la Morte, prima che i silenzi di Dio diventassero assordanti e prima che i volti si fondessero in un’unica, enigmatica maschera psichica in Persona, Ingmar Bergman sorrideva. O meglio, faceva sorridere il mondo. Un sorriso amaro, certo, intriso di quella malinconia svedese che è quasi un marchio di fabbrica, ma pur sempre un sorriso. Sorrisi di una notte d'estate è la porta d'accesso più ingannevolmente leggera all'universo bergmaniano, un carillon di desideri e ripicche la cui melodia, apparentemente frivola, preannuncia le dissonanze esistenziali che avrebbero definito la sua opera futura. Visto oggi, il film non è solo un capolavoro di commedia sofisticata, ma un vero e proprio manifesto poetico: la dimostrazione che la farsa più elegante può ospitare le verità più profonde sulla tragicommedia dell'esistenza umana.

La struttura è quella di un meccanismo a orologeria teatrale, un vaudeville da camera che avrebbe fatto l'invidia di Feydeau o la gioia di Marivaux. In una tenuta di campagna svedese, al volgere del secolo, un groviglio di coppie (attuali, passate, desiderate e improbabili) converge per un fine settimana sotto la luce incantata e perpetua del solstizio d'estate. C'è l'avvocato di mezz'età Fredrik Egerman, sposato con la vergine e infantile Anne; suo figlio Henrik, un seminarista tormentato dalla lussuria e dall'amore per la matrigna; l'attrice Désirée Armfeldt, ex amante di Fredrik e attuale amante del borioso conte Magnus; e infine la cameriera Petra, incarnazione di una carnalità pragmatica e gioiosa. Questo microcosmo, sigillato in una bolla aristocratica, diventa il palcoscenico di una guerra dei sessi combattuta non con le spade, ma con battute affilate come rasoi e sguardi carichi di sottintesi. L'eco de La regola del gioco di Renoir è palpabile: anche qui, la battuta di caccia e il ballo in maschera sono sostituiti da una cena e da una notte insonne, ma la funzione è la stessa. Le maschere sociali si sciolgono, le gerarchie si ribaltano e l'istinto primordiale emerge, caotico e liberatorio, sotto una patina di impeccabile etichetta borghese.

Eppure, ridurre Sorrisi a un semplice omaggio al cinema francese o alla commedia degli equivoci sarebbe un errore madornale. Il tocco di Bergman è unico, un amalgama di cinismo nordico e inaspettata tenerezza. Se Ernst Lubitsch insegnava a Hollywood come alludere all'adulterio con la chiusura di una porta, Bergman orchestra una sinfonia di frustrazioni sessuali ed emotive così esplicite nel loro non detto da risultare quasi assordanti. La sua non è una commedia di situazioni, ma di stati d'animo. Ogni personaggio è prigioniero di un’età della vita e di un’idea d’amore. Fredrik brama la giovinezza che gli sfugge, proiettandola sulla moglie-bambina Anne; Anne teme la maturità e la sessualità che essa comporta; Henrik si strugge in un idealismo romantico e autodistruttivo; Désirée, l'unica forse ad avere una vera consapevolezza, osserva il carosello con la stanchezza divertita di chi ha già recitato tutte le parti. In questo, il film si avvicina più a un Girotondo di Schnitzler che a una commedia hollywoodiana: un balletto circolare di desideri che raramente si incontrano nel modo e nel tempo giusto.

La genialità di Bergman sta nell'aver trasfigurato questo materiale, potenzialmente tragico, attraverso il filtro del mito e della magia. La notte d'estate del titolo non è solo un'indicazione temporale, ma un vero e proprio agente sovrannaturale, una forza pagana che scardina le convenzioni cristiane e borghesi. La vecchia madre di Désirée, sorta di Nume tutelare della tenuta, enuncia la profezia che governa il film: la notte estiva sorriderà tre volte. Il primo sorriso è per i giovani amanti, il secondo per i folli e i giullari, il terzo, il più malinconico, per i tristi e gli sconfitti. Questa struttura quasi fiabesca eleva la narrazione, la astrae dal realismo e la proietta in una dimensione archetipica. Non è un caso che il parallelo più calzante sia il Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. La tenuta svedese diventa la foresta di Atene, un luogo liminale dove le leggi della città sono sospese e un elisir d'amore (qui sotto forma di un vino "magico") rimescola le carte, rivelando le verità nascoste nei cuori dei protagonisti. Le coppie si scambiano, si inseguono, si perdono e si ritrovano, non per l'intervento di un Puck dispettoso, ma per l'irresistibile gravità del proprio, represso, desiderio.

È impossibile non rimanere folgorati dalla precisione estetica con cui Bergman e il suo fidato direttore della fotografia, Gunnar Fischer, hanno dato corpo a questa visione. Gli interni sono opulenti, quasi soffocanti, pieni di specchi che riflettono e moltiplicano le identità frammentate dei personaggi. Ma è all'esterno, nella luce crepuscolare e lattiginosa che non muore mai, che il film trova la sua anima visiva. Fischer dipinge un paesaggio che è al tempo stesso reale e onirico, un luogo dove la natura stessa sembra complice delle follie umane. La fotografia non si limita a illuminare la scena, ma ne diventa parte integrante, suggerendo un'atmosfera di incantesimo e sospensione temporale. Questa maestria visiva, unita alla perfezione dei dialoghi – un distillato di arguzia, aforismi e confessioni sussurrate – crea un'esperienza immersiva e totale.

Dietro questa perfezione formale si cela un aneddoto produttivo che ne aumenta il valore. A metà degli anni '50, Bergman era considerato un regista di talento ma commercialmente inaffidabile. Sorrisi di una notte d'estate fu la sua ultima chance, un progetto a basso budget che la Svensk Filmindustri gli concesse quasi con rassegnazione. Il trionfo fu totale e inaspettato. Il film non solo salvò la sua carriera, ma lo proiettò sulla scena internazionale, vincendo il "Prix de l'humour poétique" al Festival di Cannes e diventando la sua prima opera a ottenere una distribuzione capillare negli Stati Uniti. Fu questo successo a dargli la libertà creativa e i mezzi per realizzare, l'anno successivo, Il settimo sigillo. Si potrebbe quasi azzardare un'ipotesi meta-testuale: Bergman, come i suoi personaggi, ha avuto bisogno di una notte di leggerezza e magia per poter poi affrontare i suoi demoni più oscuri.

L'eredità del film è vasta e profonda. Ha ispirato direttamente il musical di Broadway A Little Night Music di Stephen Sondheim e, in modo ancora più evidente, Una commedia sexy in una notte di mezza estate di Woody Allen, che ne ricalca la trama e l'atmosfera con devozione quasi filologica. Ma la sua influenza va oltre i singoli omaggi. Sorrisi ha dimostrato che la commedia poteva essere un veicolo per l'indagine filosofica, che il riso poteva scaturire non dalla gag, ma dalla dolorosa consapevolezza delle nostre contraddizioni. Ha insegnato a un'intera generazione di cineasti che la profondità non richiede necessariamente la solennità.

Rivederlo oggi significa riscoprire un Bergman che gioca con le forme e con le aspettative, un burattinaio divino che muove i fili dei suoi personaggi con una crudeltà affettuosa. La scena della roulette russa, un bluff teatrale orchestrato dal Conte Magnus, è emblematica: una finta tragedia che serve a smascherare la vera commedia delle vanità maschili. Il film è un valzer danzato sull'orlo di un abisso esistenziale, con la grazia di chi sa che la vita è un gioco assurdo, e l'unica strategia vincente è accettare la propria ridicola, meravigliosa, umanità. La notte, alla fine, sorride per tutti: per chi trova un nuovo amore, per chi si accontenta di un'avventura carnale, e anche per chi, come Fredrik e Désirée, accetta la propria sconfitta con l'elegante rassegnazione di chi ha amato e vissuto abbastanza da sapere che non tutte le battaglie si possono vincere. E in quel sorriso agrodolce risiede tutta la straziante bellezza del cinema di Ingmar Bergman.

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