Stalag 17
1953
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Regista
Un errore di categorizzazione persistente e quasi criminale perseguita Stalag 17 di Billy Wilder sin dalla sua uscita nel 1953. Lo si archivia, per pigrizia mentale, nello scaffale del "film di guerra", magari in quello specifico dei "prigionieri di guerra", accanto a cugini più nobili e muscolari come La grande fuga di John Sturges. Ma catalogare Stalag 17 in questo modo è come definire Moby Dick un manuale di caccia alla balena. È un'opera che indossa la divisa militare come un travestimento, un abito di scena per mettere in scena un dramma da camera che ha la claustrofobia di un testo di Sartre, la paranoia di un thriller della Guerra Fredda e la struttura investigativa di un giallo di Agatha Christie. È, a tutti gli effetti, un film noir con il fango al posto dell'asfalto bagnato di pioggia.
Billy Wilder, transfuga europeo dal cinismo affilato come un bisturi, non era interessato a celebrare l'eroismo convenzionale. Il suo cinema è un catalogo di opportunisti, sognatori falliti, arrivisti e anime in vendita, da Joe Gillis in Viale del tramonto a C.C. Baxter ne L'appartamento. E in questo pantheon di antieroi, il sergente J.J. Sefton, interpretato da un William Holden al suo zenit magnetico, occupa un posto d'onore. Sefton non è un eroe. Non è nemmeno un soldato, nel senso spirituale del termine. È un organismo perfettamente adattato al suo ecosistema: il campo di prigionia. In un luogo dove la valuta corrente è la speranza e la solidarietà, Sefton è un capitalista puro, un broker dell'informazione e del comfort che gestisce un fiorente mercato nero di sigarette, uova e scommesse. Si muove in questo fango morale con la sicurezza di un detective hard-boiled di Chandler catapultato per errore sul fronte orientale, un individualista radicale in un microcosmo forzatamente collettivista.
La sua filosofia è semplice e brutale: sopravvivere. Non per la patria, non per i commilitoni, ma per se stesso. È questo che lo rende immediatamente sospetto agli occhi degli altri prigionieri quando due tentativi di fuga finiscono in un massacro. In una comunità saldata dal patriottismo e dalla necessità, l'uomo che pensa solo a sé è il candidato ideale al ruolo di traditore. Il film, basato sull'omonima pièce teatrale di Donald Bevan e Edmund Trzcinski (entrambi ex prigionieri di guerra, un dettaglio che ancora la finzione in una tangibile, amara realtà), si trasforma così in un'indagine a porte chiuse. La baracca 4 non è più una camerata, ma la biblioteca di un maniero inglese dove il cadavere è la fiducia e il detective è l'assassino designato. Ogni sguardo, ogni parola, ogni sigaretta scambiata diventa un indizio o una falsa pista.
Qui risiede il genio politico, quasi meta-testuale, dell'opera. Uscito nel cuore dell'era McCarthy, Stalag 17 è una potentissima, seppur involontaria, allegoria della caccia alle streghe che stava avvelenando l'America. La baracca è una miniatura della società statunitense del tempo, attanagliata dalla paura dell'infiltrato, del "nemico interno". La paranoia collettiva si coagula attorno a Sefton non sulla base di prove concrete, ma per la sua non conformità, per il suo rifiuto di aderire al catechismo del sacrificio di gruppo. Viene processato e condannato da un tribunale popolare guidato più dall'isteria che dalla logica, un'eco sinistra delle audizioni della Commissione per le attività antiamericane. Wilder, che era fuggito dalla Germania nazista, conosceva fin troppo bene i meccanismi del capro espiatorio e la velocità con cui una folla può trasformarsi in un branco. La brutalità del pestaggio di Sefton è il punto di non ritorno del film, il momento in cui la presunta superiorità morale dei prigionieri si sbriciola, rivelando la stessa ferocia dei loro carcerieri. L'unica differenza, sembra suggerire Wilder, è la bandiera per cui si combatte.
Stilisticamente, il film è un miracolo di equilibrio tonale. Wilder orchestra un contrappunto magistrale tra commedia e tragedia, spesso nella stessa scena. I personaggi di Animal (Robert Strauss) e Harry Shapiro (Harvey Lembeck), con le loro ossessioni per Betty Grable e le loro danze sgangherate, offrono un sollievo comico che non stempera mai la tensione, ma anzi la accentua per contrasto. La loro comicità è disperata, una forma di follia necessaria per non soccombere alla disumanizzazione del lager. Questa coesistenza di registri, questo umorismo nero che affiora tra il filo spinato, anticipa di quasi un decennio l'assurdismo bellico di Comma 22 di Joseph Heller. La guerra, in Wilder come in Heller, non è un'epopea gloriosa, ma un'impresa grottesca e irrazionale gestita da burocrati (il comandante del campo Von Scherbach, un Otto Preminger magnificamente flemmatico e crudele) e subita da uomini comuni che cercano solo di non impazzire.
William Holden vinse un Oscar per questo ruolo, e non è difficile capirne il motivo. Il suo Sefton è una creatura di pura fisicità e intelligenza sardonica. Il modo in cui mastica il sigaro, la postura indolente, lo sguardo che calcola ogni angolo e ogni probabilità, tutto contribuisce a creare un personaggio indimenticabile. È l'incarnazione del cinismo come meccanismo di difesa. Il suo disprezzo per l'idealismo non è nichilismo fine a se stesso; è il prodotto di una lucidità spietata. Ha capito, prima di tutti, che nel lager le regole del mondo esterno sono sospese e che aggrapparsi a esse è una forma di suicidio. La sua redenzione finale non è una conversione all'eroismo patriottico. Quando smaschera il vero informatore e organizza la fuga del tenente Dunbar, non lo fa per la bandiera a stelle e strisce. Lo fa per riabilitare il proprio nome, per regolare un conto personale, e forse, in un barlume di umanità che si concede a malincuore, perché è la cosa giusta da fare. Ma anche in questo, il suo pragmatismo prevale. La sua ultima, celeberrima battuta – "Se mai dovessi incontrarvi di nuovo, facciamo finta di niente" – non è un addio cameratesco, ma la dichiarazione finale della sua irriducibile alterità.
Confrontare Stalag 17 con La grande fuga è un esercizio illuminante. Il film di Sturges è un inno alla cooperazione, un'avventura corale interpretata da divi solari e impeccabili. È un mito fondativo, splendidamente realizzato, ma pur sempre un mito. Stalag 17 è il suo rovescio sporco e disincantato. È un film sulla solitudine, sulla sfiducia e sul prezzo dell'individualismo. La fotografia di Ernest Laszlo non cerca mai la bellezza epica; immerge lo spettatore nel fango, nella promiscuità opprimente delle baracche, nel grigiore infinito di un'esistenza in cattività. Non ci sono motociclette che saltano recinzioni, ma solo uomini che cercano di rubare una lampadina per vedere meglio al buio.
Forse, in definitiva, Stalag 17 non è un film sulla guerra, ma sulla condizione umana in stato di assedio. Il campo di prigionia è un laboratorio, un acceleratore di particelle sociali che spoglia i suoi abitanti di ogni sovrastruttura per rivelarne la natura più profonda. E ciò che Wilder ci mostra non è sempre edificante. Ci mostra che l'istinto di sopravvivenza può essere più forte della lealtà, che la paura è un solvente potentissimo per la solidarietà, e che l'eroismo, quando si manifesta, è spesso un affare ambiguo, solitario e privo di fanfare. Un'opera essenziale, non perché ci rassicura sulla nobiltà dell'animo umano, ma perché ci costringe a guardare in faccia la sua complessità, le sue miserie e la sua testarda, cinica, insopprimibile voglia di farcela. A qualunque costo.
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