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Stalker

1979

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Un uomo scavalca furtivamente un recinto nella notte.

E’ uno Stalker, colui che conosce la strada e conduce i visitatori nella Zona, un luogo interdetto dalle Autorità dopo che al suo interno si sono verificati fatti che non hanno avuto spiegazione. Il suo ruolo trascende la mera funzione di guida, assurgendo a quella di officiante in un rito laico, di sacerdote di un credo indefinito che ha la Zona come santuario profano. Non è l’eroe nel senso convenzionale, ma piuttosto un archetipo del pellegrino moderno, un Charon contemporaneo che traghetta anime smarrite verso un limbo dove la speranza non è garantita, ma solo la possibilità di confrontarsi con il proprio nucleo più intimo.

Nella Zona esiste la Stanza, il posto dove i sogni possono trasformarsi in realtà, dove le domande ricevono risposte. La Stanza, l’epicentro di questa Zona mistica, non è un mero distributore di sogni, ma piuttosto un impietoso specchio dell’anima. Si dice che esaudisca i desideri più reconditi e sinceri, non quelli superficiali espressi a parole o persino quelli che la mente razionale elabora. È proprio questa inquietante onestà, questa brutale assenza di filtro tra il profondo dell’essere e la sua manifestazione, a terrorizzare i visitatori più della Zona stessa. L’uomo è confrontato con la verità ultima di sé, non con l’illusione che si costruisce quotidianamente. Questa paura del desiderio autentico, del sé non filtrato, è un tema ricorrente nell'opera di Tarkovsky, un invito pressante all'introspezione che non ammette compromessi.

Con lui viaggiano il Professore e lo Scrittore, due uomini alla deriva nel tumulto della vita, in cerca di una svolta. Essi incarnano archetipi universali: la scienza e l’intelletto disilluso di fronte al mistero ineffabile, la fede e l’intuizione come unica bussola in un mondo senza coordinate. Il loro viaggio è una metafora della sete di conoscenza, tanto più si perdono punti di riferimento durante il cammino quanto più duro è raggiungere il sapere ultimo. La Zona stessa si rivela non tanto un luogo fisico quanto uno spazio liminale della psiche, un deserto interiore punteggiato di trappole non materiali, ma esistenziali. Ogni passo falso non è dettato da un pericolo tangibile, ma da un’incertezza metafisica, dalla paura di confrontarsi con un desiderio autentico che la Stanza, paradossalmente, potrebbe rivelare con troppa brutalità.

Il paesaggio che attraversano è desolato, abbandonato, devastato da qualcosa di indefinibile. Un indolente languore avvolge ogni cosa depositando le spore dell’abbandono, della solitudine, dell’avvelenamento. Qui, il paesaggio non è solo un fondale, ma un’estensione dello stato d’animo dei protagonisti: le macerie industriali, l’acqua stagnante, la vegetazione selvaggia che riprende il suo dominio, tutto grida l’abbandono non solo delle strutture umane ma delle certezze stesse. La palette cromatica, o meglio la sua quasi assenza – con le tonalità quasi monocromatiche delle sequenze iniziali che cedono il passo a folate di colore solo quando i personaggi entrano nella Zona, un’esplosione di verdi e bruni saturati – non è un mero vezzo estetico, ma un linguaggio per distinguere la sterile e oppressiva realtà esterna dalla vibrante, seppur pericolosa, interiorità della Zona. La regia di Tarkovsky è un’immersione, un lento scorrere di sequenze meditative che obbligano lo spettatore a rallentare il proprio ritmo percettivo, a sintonizzarsi con la respirazione lenta e profonda dell’opera, amplificata da un sound design che eleva ogni goccia d'acqua e ogni fruscio a un elemento sinfonico.

Un altro grande film di Andrei Tarkovsky tratto da un racconto dei fratelli Strugatsky, "Picnic sul ciglio della strada": oscuro, umbratile, diafano, dilatato e impercettibile, come un verso di Dylan Thomas sussurrato nella notte. Tarkovsky, pur partendo dal nucleo narrativo degli Strugatsky, se ne discosta profondamente, sublimando la fantascienza in una parabola metafisica. Laddove il romanzo si concentra maggiormente sugli artefatti e sui misteri materiali della Zona, il regista sovietico spoglia la narrazione di ogni facile sensazionalismo per concentrarsi sull'odissea interiore, trasformando il genere in pura filosofia visiva.

Un tuffo a capofitto dentro i più oscuri meandri del sentire umano, di una realtà ostile e inconoscibile, di un malessere diffuso e ineludibile. La genesi di Stalker è essa stessa un’odissea tarkovskiana. Il film fu girato in condizioni estenuanti, afflitto da problemi tecnici e da una produzione tormentata che vide scartate e rigirate intere sezioni a causa della distruzione del negativo originale. Questa “seconda nascita” del film, in cui Tarkovsky decise di ricominciare quasi da zero, non è solo un aneddoto produttivo ma un segno della sua implacabile ricerca della perfezione, un’ossessione che si riflette nella meticolosità delle sue inquadrature e nella profondità dei suoi temi. Si dice che questa stessa acqua in cui sono immersi i protagonisti fosse inquinata, una tangibile metafora del malessere che permea la pellicola e forse la stessa società sovietica del tempo, ancor prima dell’eco premonitore del disastro di Chernobyl, con cui molti critici hanno erroneamente – o forse intuitivamente – associato la desolazione della Zona.

Ma anche un tentativo di dare una spiegazione: “Cosa risuona in noi in risposta al rumore elevato ad armonia? E come si trasforma per noi nella fonte di un immenso piacere?”. Non si può non avvertire in questo vagare senza meta un’eco dei labirinti kafkiani, della vana attesa beckettiana, ma qui l’assurdo si fonde con una spiritualità palpabile, anche se non dogmatica. L’inquietudine è esistenziale, ma la ricerca è trascendente. Il quesito finale è un invito quasi mistico a percepire l’inaudito, a tradurre il caos dell’esistenza in una melodia comprensibile, una ricerca della bellezza e del senso nonostante tutto.

Tarkovsky continua il suo viaggio dentro la Monade Uomo: da cosa siamo mossi, cosa ci spinge a proseguire, quali mete possiamo prefiggerci? Stalker è il complemento ideale di Solaris, l’uomo è solo davanti ai suoi incubi. Ma se in Solaris l’origine dell’incubo era emotiva, proiettata da un oceano pensante che materializzava le colpe e i desideri repressi dei personaggi, un’entità cosmica che faceva da specchio all’inconscio, in Stalker è esclusivamente intellettuale. Qui la Zona non è un’entità senziente nel medesimo modo, ma un catalizzatore, un filtro attraverso cui le “scorie neuronali” – quelle stratificazioni di paure, falsi obiettivi, autoinganni intellettuali – vengono messe a nudo. L’uomo non si batte contro un nemico esterno o un’alienazione che lo trascende, ma contro la propria fallibilità intrinseca, contro i tranelli della propria mente che lo deviano dal vero desiderio. La Zona è il purgatorio laico in cui l’anima, spogliata di ogni sovrastruttura, deve affrontare il proprio vuoto o la propria verità più scomoda, le scorie neuronali con le quali l’uomo deve battersi per essere in grado di raggiungere la meta ultima, se pure essa esista, o forse per accettare che la meta stessa sia il cammino impervio, la ricerca senza fine.

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