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Poster for Stand by Me - Ricordo di un'estate

Stand by Me - Ricordo di un'estate

1986

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Regista

Nella grande cartografia del cinema americano, certi sentieri sono più battuti di altri. La strada del coming-of-age, ad esempio, è un'autostrada a più corsie, trafficata da decenni di pellicole che tentano di catturare quel fulmine in bottiglia che è la fine dell'infanzia. Eppure, a lato di questa superstrada, corre un binario solitario, arrugginito e quasi inghiottito dalla vegetazione. È lungo questo binario che si muove, con la grazia dolente di un'elegia pastorale, Stand by Me - Ricordo di un'estate di Rob Reiner. Un'opera che trascende il genere per diventare un monumento quasi proustiano alla memoria, un'esplorazione del territorio perduto dell'amicizia pre-adolescenziale.

Per cogliere la magnitudo sismica di questo film, è necessario un atto di archeologia culturale. Siamo nel 1986. Stephen King è il monarca incontrastato dell'horror, un nome sinonimo di clown assassini, hotel infestati e balli scolastici telecinetici. E da una sua novella, tratta dalla raccolta Stagioni diverse (Different Seasons) – la stessa miniera d'oro che ci darà Le ali della libertà e L'allievo – emerge non un mostro, ma qualcosa di infinitamente più terrificante: il passato. La novella si intitola The Body, un titolo brutalmente onesto che punta dritto al MacGuffin della storia: il cadavere di un ragazzino scomparso. La genialità di Reiner e degli sceneggiatori Raynold Gideon e Bruce A. Evans fu quella di spostare il fuoco dal cosa al chi e al perché. Cambiando il titolo in Stand by Me, hanno trasformato una ricerca macabra in un inno, una dichiarazione d'intenti che risuona con la melodia agrodolce di Ben E. King.

Il film è una narrazione incorniciata, un ricordo evocato dall'adulto Gordie Lachance (un cameo vocale e fisico di Richard Dreyfuss), divenuto scrittore. Questa struttura non è un mero artificio; è il motore concettuale dell'intera opera. Non stiamo vivendo l'estate del 1959 in tempo reale. La stiamo vivendo attraverso il filtro deformante e allo stesso tempo chiarificatore della nostalgia. Ogni foglia, ogni raggio di sole che filtra tra gli alberi dell'Oregon (che sostituisce il Maine di King) è intriso di un significato che i ragazzi, all'epoca, non potevano cogliere. È un paesaggio dell'anima, un'Arcadia americana contaminata dalla consapevolezza della sua stessa fine. Il viaggio dei quattro ragazzi lungo i binari della ferrovia è, in questo senso, un'odissea in miniatura, un pellegrinaggio lungo un'arteria liminale che non appartiene né alla civiltà della cittadina di Castle Rock, né alla natura selvaggia e indifferente che la circonda. È uno spazio-tempo a sé, dove le regole degli adulti sono sospese e può fiorire un'intimità cameratesca totalizzante.

I quattro cavalieri di questa apocalisse infantile sono archetipi cesellati con una precisione quasi mitologica. Gordie Lachance (Wil Wheaton) è l'artista nascente, il cantastorie, l'osservatore sensibile schiacciato dal fantasma del fratello maggiore defunto (John Cusack), l'idolo irraggiungibile. La sua ricerca non è solo per un corpo, ma per una voce, per il diritto di esistere al di fuori dell'ombra di un lutto familiare. Chris Chambers (River Phoenix) è l'anima tragica, il leader carismatico intrappolato in una profezia di fallimento auto-avveratasi a causa del suo cognome. È il più saggio e il più ferito, colui che vede il potenziale in Gordie perché dispera di vederlo in se stesso. La performance di Phoenix, vista con il senno di poi, è di una fragilità che spezza il cuore. C'è una scena, un dialogo notturno accanto al fuoco, in cui confessa a Gordie di aver rubato i soldi del latte a scuola. In quegli istanti, Phoenix non recita: apre una voragine nella propria anima e in quella del personaggio, mostrando una vulnerabilità e una maturità che trascendono la sua età anagrafica. È uno di quei rari momenti in cui il cinema smette di essere finzione e diventa una testimonianza quasi insostenibile della condizione umana.

A completare il quartetto ci sono Teddy Duchamp (Corey Feldman), un fascio di nervi e rabbia la cui spavalderia è la maschera di un trauma paterno devastante, e Vern Tessio (Jerry O'Connell), il motore comico e pavido della vicenda, la cui ossessione per il pettine e il cui ritrovamento del tesoro di monetine interrate serve da contrappunto infantile alla serietà esistenziale della loro missione. Insieme, non sono solo amici; sono un organismo unico, un sistema di supporto reciproco che permette a ciascuno di sopravvivere alle proprie personali zone d'ombra. La loro chimica è un miracolo di casting e direzione, un'alchimia così perfetta da farci credere che questi ragazzi abbiano davvero condiviso un'intera vita prima che la cinepresa iniziasse a girare.

Reiner orchestra questo materiale con la mano di un maestro. Resiste alla tentazione di santificare l'infanzia, mostrandone tutta la volgarità, la crudeltà e l'umorismo scatologico (la celebre storia di Lard-Ass Hogan e della gara di mangiatori di torte è un capolavoro di narrazione meta-testuale, un racconto nel racconto che cementa il talento di Gordie). Eppure, sa esattamente quando rallentare, quando lasciare che un silenzio o uno sguardo dicano più di mille dialoghi. La scena del ponte ferroviario, con il treno in arrivo, non è solo un momento di suspense hitchcockiana, ma una metafora potente della loro corsa contro il tempo che avanza, contro un'età adulta che li sta per travolgere. La natura stessa si fa personaggio: le sanguisughe nello stagno sono un'orrorifica epifania della violazione fisica, un battesimo grottesco che li segna indelebilmente.

Il confronto finale con la banda di Ace Merrill (un Kiefer Sutherland giovane e spaventosamente carismatico) è meno una scazzottata tra ragazzi e più uno scontro tra due Americhe, tra due destini. Ace e i suoi sono il futuro fallito di Castle Rock, la versione adulta e abbrutita del determinismo sociale che minaccia di inghiottire anche Chris e Teddy. Quando Gordie punta la pistola, non sta solo difendendo il corpo di Ray Brower; sta difendendo il diritto alla dignità, al lutto e al significato. Sta reclamando la storia. È il momento in cui il ragazzo che racconta storie diventa il ragazzo che fa la storia.

Ambientato nel 1959 ma girato nel 1986, Stand by Me è un perfetto esempio di mitopoiesi reaganiana, un ritorno a un'America pre-Vietnam, pre-assassinio di Kennedy, percepita come più semplice e innocente. Ma a differenza della nostalgia patinata di Happy Days o American Graffiti, quella di Reiner è una nostalgia lacerata dal dolore. Sotto la superficie levigata della musica di Buddy Holly e dei The Chordettes, si agitano le correnti oscure della violenza domestica, del classismo e della mortalità precoce. Il film non idealizza il passato; lo piange. Lo osserva come Gordie osserva il cervo sulla ferrovia all'alba: un momento di bellezza pura e fugace, reso ancora più prezioso dalla consapevolezza che non potrà essere condiviso, che appartiene solo a chi lo ha vissuto.

La frase finale, vergata sullo schermo del computer dell'adulto Gordie, è una delle chiusure più devastanti della storia del cinema: "Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a dodici anni. Gesù, ma chi li ha?". In queste poche parole si condensa il nucleo tematico del film. Stand by Me non è solo la storia di un'estate, ma un saggio universale sulla natura effimera delle connessioni umane. Ci dice che certe amicizie, forgiate nel crogiolo della pre-adolescenza, quando non siamo ancora del tutto formati ma nemmeno più completamente bambini, possiedono un'intensità e una purezza irripetibili. Sono i legami che ci definiscono prima che il mondo ci definisca. Perdere quegli amici, come accade inevitabilmente con il passare degli anni, non è solo triste; è come perdere una parte fondamentale di noi stessi, una versione del nostro io che esiste solo nel loro ricordo. Il film è un epitaffio per quell'io perduto e per quegli amici che, anche quando non ci sono più, continuano a camminare con noi, per sempre, lungo i binari della memoria.

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