Suspiria
1977
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Regista
Guardare Suspiria per la prima volta è come subire un'aggressione estetica, un'irruzione sinestetica che bypassa i centri della logica per colpire direttamente il sistema limbico. Dario Argento, qui al suo zenit demiurgico, non dirige un film dell'orrore nel senso convenzionale del termine; orchestra un'opera barocca e febbricitante, un delirio cromatico e sonoro dove la trama è un mero pretesto, un esile filo di Arianna teso attraverso un labirinto di sensazioni pure e terrificanti. Abbandonate ogni pretesa di verosimiglianza all'ingresso. L'accademia di danza di Friburgo non è un luogo sulla mappa terrestre, ma uno stato della mente, un'architettura dell'incubo edificata sulle fondamenta dell'espressionismo tedesco e ridipinta con i colori acidi di un trip psichedelico andato terribilmente storto.
Il film si apre con l'arrivo di Suzy Bannion (una Jessica Harper dall'aria perennemente sperduta, perfetta incarnazione dell'innocenza americana gettata nella tana del lupo europeo) in una Germania notturna e tempestosa. È un incipit che riecheggia innumerevoli fiabe, dai fratelli Grimm in giù: la fanciulla che si avventura nella foresta oscura. Ma la foresta di Argento non è fatta di alberi, bensì di geometrie impossibili e di corridoi saturi di un rosso così aggressivo da sembrare pulsante, vivo. La scelta di Friburgo, ai margini della Foresta Nera, non è casuale. È un ancoraggio geografico a quel substrato mitopoietico germanico che ha generato l'immaginario gotico e fiabesco. Argento, però, prende questo materiale archetipico e lo contamina, lo infetta con una modernità pop e brutale. È come se Walt Disney, dopo aver letto Thomas De Quincey e ascoltato King Crimson, avesse deciso di girare un remake di Biancaneve sotto l'influenza di potenti allucinogeni.
Il debito con De Quincey e il suo Suspiria de Profundis è più concettuale che narrativo. Argento non adatta il testo, ma ne cattura l'essenza: l'esplorazione di stati mentali alterati, il potere evocativo del sogno e la personificazione di entità astratte come le "Nostre Signore del Dolore". Mater Suspiriorum, la Madre dei Sospiri, non è un semplice mostro, ma la materializzazione di un'angoscia primordiale, un male antico che si annida dietro le apparenze borghesi e l'eleganza Art Nouveau dell'accademia. Questa dualità tra una facciata di raffinata cultura europea (la danza, la disciplina) e un cuore occulto e sanguinolento è il motore del film. È la stessa tensione che si può ritrovare nel Giro di vite di Henry James, dove il terrore nasce dall'impossibilità di distinguere tra la realtà percepita e la proiezione di una psiche sull'orlo del collasso.
La genialità di Argento e del suo direttore della fotografia, Luciano Tovoli, risiede nella scelta radicale e anacronistica di girare in Technicolor, utilizzando le vecchie pellicole a tre negativi imbibite di colore, un processo già obsoleto nel 1977. Questa non è una mera vezziosità stilistica, ma una dichiarazione d'intenti. Il mondo di Suspiria non deve assomigliare al nostro. I colori primari – il rosso del sangue e della passione violenta, il blu gelido della notte e della paura, il verde velenoso della magia nera – non descrivono la realtà, la creano. Sono pennellate fauviste che definiscono lo stato emotivo di ogni scena, inondando lo schermo e lo spettatore. L'omicidio iniziale, con il cuore della vittima trafitto ripetutamente mentre il suo volto si schianta contro una vetrata colorata, è un manifesto programmatico: la violenza sarà tanto stilizzata quanto efferata, la morte una performance artistica macabra, un balletto grand-guignolesco. È un'estetizzazione della violenza che ricorda più le installazioni di un artista contemporaneo che un film di genere, quasi un'anticipazione della videoarte più disturbante.
A questo assalto visivo fa da contraltare un'aggressione sonora altrettanto implacabile. La colonna sonora dei Goblin non è un accompagnamento, è un personaggio a sé stante, un antagonista invisibile. Le nenie infantili sussurrate, il clangore metallico, i ritmi ossessivi del prog-rock e le scale ultraterrene del sintetizzatore Moog creano una cacofonia che anticipa, sottolinea ed espande l'orrore. La musica spesso precede l'azione, generando una tensione quasi insostenibile, una violazione dello spazio acustico che mette a nudo i nervi dello spettatore prima ancora che la minaccia si palesi. È l'esatto opposto della suspense hitchcockiana, basata sul non visto e sul suggerito. Argento mostra tutto, inonda i sensi, pratica un cinema dell'ipertrofia, del massimalismo sensoriale. L'effetto è profondamente disorientante, una febbre che sale inesorabilmente.
La logica narrativa è sacrificata sull'altare di questa esperienza totalizzante. Perché la ragazza cieca e il suo pastore tedesco vengono attaccati in una piazza deserta? Perché una stanza si riempie di larve che cadono dal soffitto? Cercare una spiegazione razionale è un esercizio futile, l'errore che commette chiunque tenti di decifrare un incubo con gli strumenti della veglia. Suspiria opera secondo una logica onirica, associativa, dove le paure più recondite si manifestano senza bisogno di una concatenazione causale. In questo, il film si avvicina più al cinema surrealista di Buñuel o all'universo ermetico di David Lynch che al filone horror tradizionale. È un film che si sente, non si capisce. L'accademia di danza, con i suoi corridoi decorati con motivi geometrici che sembrano presi da un'incisione di Escher e le sue porte che si aprono su stanze segrete, non è un edificio, ma la mappa di un subconscio malato. Ogni porta è una soglia, ogni stanza una diversa camera delle paure.
Meta-testualmente, Suspiria è anche una riflessione perversa sul potere femminile. È un universo quasi interamente matriarcale, governato da un conclave di donne anziane e potenti, le insegnanti e la direttrice, che letteralmente divorano la giovinezza e la vitalità delle loro allieve. Non c'è traccia di sorellanza; è una gerarchia spietata basata sulla magia e sul terrore. Gli uomini sono figure marginali, impotenti (lo psicologo, il pianista cieco), destinate a essere eliminate con brutale rapidità. Il film esplora una femminilità archetipica, ancestrale, legata a forze ctonie e irrazionali, che si contrappone alla razionalità (impotente) del mondo moderno. Suzy, l'americana, rappresenta quasi un principio apollineo di ordine e logica che si scontra con il caos dionisiaco della congrega. La sua vittoria finale non è un trionfo del bene sul male in senso morale, ma la sopravvivenza della razionalità di fronte all'assalto del caos primordiale, un risveglio brusco e violento dal sogno maligno.
A decenni di distanza, Suspiria rimane un oggetto cinematografico unico, inimitabile e profondamente influente. Ha generato un'intera estetica, lasciando il suo DNA cromatico e sonoro in innumerevoli opere successive, da Nicolas Winding Refn a Panos Cosmatos. Ma nessun imitatore è mai riuscito a replicarne la folle, sincera e quasi infantile crudeltà, quella capacità di trasformare la paura in una forma d'arte abbagliante e assordante. Non è un film perfetto, se per perfezione intendiamo coerenza narrativa e profondità psicologica. Ma se la intendiamo come la piena realizzazione di una visione artistica singolare e senza compromessi, allora Suspiria è un capolavoro assoluto. Un'esperienza immersiva e terrificante, un monumento al potere del cinema di trascinarci oltre lo specchio, in un luogo dove la bellezza e l'orrore danzano insieme un valzer infernale.
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