Sussurri e Grida
1972
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Regista
Quest’opera rappresentò per Bergman la naturale evoluzione del suo percorso speculativo sull’incomunicabilità iniziato con Persona, un'indagine esistenziale che qui si condensa in una claustrofobica disamina del fallimento dei legami più intimi. Se in Persona l'abisso era scavato nel silenzio tra due donne, qui si moltiplica e si amplifica, assumendo le sfumature complesse e dolorose di un caleidoscopio familiare destinato alla disintegrazione. E sia la poetica che la narrazione ripercorrono il precedente lavoro e ne sviluppano l’ordito, tingendolo di un lirismo soffocante; qui si tratta di uno lancinante ritratto dell’indifferenza umana, non già un'assenza di sentimento, bensì l'incapacità o il rifiuto di empatizzare, un egoismo ontologico che condanna all'isolamento più crudele.
La storia è ambientata in una casa rurale della Svezia di inizio secolo, un'ambientazione che non è mero sfondo, ma quasi un personaggio a sé stante. Le tappezzerie vellutate e i pesanti drappeggi rossi non offrono calore o conforto, ma piuttosto una sensazione di oppressione e di prigione dorata, un guscio sontuoso ma asfissiante che sigilla il dramma. Il primo Novecento, con le sue rigide convenzioni borghesi e il latente malessere fin-de-siècle, amplifica la sensazione di un mondo in cui le emozioni sono relegate al non detto, ai gesti furtivi o alle esplosioni represse.
La giovane padrona di casa, Agnes, sta morendo di cancro e riceve la visita delle sue sorelle, Karin e Maria. Non è una riunione di conforto, ma un catalizzatore per l'esacerbazione di ferite mai rimarginate. Inizierà un graduale deperimento dei rapporti umani fra le tre donne, un'erosione lenta e inesorabile causata da un confronto dialettico perennemente fuori registro, dove ogni tentativo di avvicinamento si scontra con muri invisibili, eretti da decenni di risentimenti e incomprensioni. Agnes, pur nel suo dolore fisico lancinante, diviene il centro muto attorno cui ruotano le nevrosi delle sorelle: la frigida e masochista Karin, tormentata da un disgusto di sé che la porta all'automutilazione più scioccante, e la volubile e superficiale Maria, prigioniera di un'edonismo vacuo che maschera un vuoto esistenziale profondo. A fare da controcanto alla loro spietata aridità emotiva è Anna, la domestica, figura silenziosa e materna che, sola tra tutti, offre compassione autentica ad Agnes, incarnando una forma di amore puro e incondizionato, quasi primordiale, in netto contrasto con la glaciale retorica delle padrone.
L’impressione è che ognuna delle donne resti ermeticamente chiusa nella propria Monade, un riferimento esplicito alla filosofia di Leibniz, dove le singole sostanze individuali sono universi autonomi, senza “finestre” che permettano la comunicazione diretta con l'esterno. Nonostante gli sforzi, e talvolta persino le suppliche disperate di vicinanza, esse non riescono a comunicare, condannate a un'eterna solitudine interiore. Ogni tentativo di connessione è un fallimento: un abbraccio respinto, una confessione inascoltata, uno sguardo che scivola via.
È un’opera dove la parola si fa sofferenza, diviene quasi aerea, irraggiungibile, veicolo di incertezza e, spesso, di inganno o di violenza velata. Il linguaggio, lungi dall'essere ponte, si rivela un ulteriore muro, incapace di esprimere l'indicibile dolore o la profondità del risentimento. I sussurri sono frammenti di intimità mancata, le grida manifestazioni di un'angoscia che non trova sfogo, echi di un'esistenza in cui la verità emotiva è prigioniera. Il silenzio non è riposo, ma il rimbombo assordante di cuori isolati.
Bergman esegue un lavoro straordinario dal punto di vista cinematografico, un'autentica vertigine estetica. Girato con una pulizia e una raffinatezza stilistica senza pari, il film è un tour de force visivo che trascende la mera narrazione. I cromatismi, in particolare, sono un elemento portante e ossessivo: il rosso cremisi pervade ogni inquadratura, dalle pareti della casa agli abiti, dal sangue versato alla polpa vibrante dell'anima. Questo colore, spesso associato al dolore, alla passione, alla vita stessa e alla morte, diventa una metafora visiva dell'utero materno da cui si è nati e in cui si ritorna, un simbolo del sangue familiare che lega e soffoca, del dolore viscerale di Agnes e dell'intenso universo emotivo che le sorelle non riescono a decifrare. È un rosso che sanguina e pulsa, un colore vivo in un ambiente di morte spirituale, un contrasto stridente che evoca la tavolozza espressionista di Edvard Munch o i drammi intimi dei pittori simbolisti scandinavi.
Le scene iconiche, mutuate da dipinti, sono composizioni pittoriche viventi: l'immagine delle tre sorelle e Anna che piangono insieme nel letto di Agnes, per esempio, ricorda le Pietà del Rinascimento o i gruppi scultorei classici, infondendo al dolore personale una dimensione universale e atemporale. I contrasti di ombre e luce, magistralmente scolpiti dalla fotografia di Sven Nykvist, non sono solo elementi tecnici ma strumenti ermeneutici: la luce rivela la purezza e la sofferenza di Agnes, mentre le ombre celano i tormenti più oscuri di Karin e la superficialità di Maria. Ogni cosa è disposta con raffinato mestiere, una coreografia di corpi, spazi e colori che comunica più di qualsiasi dialogo. Bergman, che finanziò personalmente gran parte della produzione di questo film, dimostrò non solo una visione artistica ferrea ma anche una profonda e coraggiosa fiducia nella propria poetica, rischiando il tutto per tutto per dar vita a un'opera tanto intima quanto lacerante.
Il regista svedese ci consegna un altro capolavoro, e lo fa con il sorriso amaro di chi sa quanto sia stato difficile strapparlo alla propria poetica, ai propri demoni interiori. Sussurri e Grida non è solo un film, ma un'esperienza catartica, un'esplorazione brutale ma sublimata della condizione umana, della solitudine ineludibile e della disperata ricerca di un contatto che troppo spesso rimane un miraggio. È un testamento alla capacità del cinema di sondare le profondità dell'animo, lasciando nello spettatore una cicatrice indelebile e la consapevolezza della vertiginosa bellezza che può emergere dal dolore più autentico.
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