Follie d'inverno
1936
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Regista
Follie d'inverno (Swing Time) è l'opera in cui la partnership tra Fred Astaire e Ginger Rogers trascende la coreografia e diventa una tesi sull'esistenza. È un film sulla grazia come unica risposta possibile al caos dell'era moderna. È il 1936. Il mondo sta per esplodere, la Depressione morde ancora, ma qui, in questo universo ermetico di Art Déco e smoking, ogni problema—economico, romantico, persino sartoriale—può essere risolto da un time step. È escapismo? Certo. Ma è un escapismo così perfetto, così formalmente inattaccabile, da diventare una forma d'arte sublime, quasi filosofica.
È fondamentale capire il contesto. Questo è il sesto dei dieci film Astaire-Rogers, ed è il momento in cui la formula raggiunge una complessità barocca. La regia è affidata a George Stevens, un maestro che non è un semplice mise en scène di numeri musicali (come Mark Sandrich, regista di molti loro successi). Stevens è un drammaturgo visivo. Venendo dalla gavetta delle comiche di Stanlio e Ollio, Stevens capisce la geometria dello spazio e la fisica della gag, ma è anche ossessionato dalla psicologia. Follie d'inverno è forse il primo musical in cui la macchina da presa pensa. Stevens utilizza dissolvenze incrociate liriche e una profondità di campo che (pur non essendo ancora quella di Quarto Potere) isola i personaggi, li intrappola nelle scenografie mozzafiato di Van Nest Polglase. La New York del film non è una città; è un sogno Déco, un'utopia di superfici lucide, curve aerodinamiche e appartamenti grandi come hangar, un non-luogo dove l'unica industria è il divertimento.
La trama, come sempre in questi film, è un congegno assurdo, un'impalcatura di equivoci che serve solo a tenere separati i due protagonisti fino al prossimo numero musicale. Lucky Garnett (Fred Astaire) è un giocatore d'azzardo (un "gambler", figura archetipica della Depressione, che vive di caso e fortuna) che deve andare a New York per guadagnare 25.000 dollari per poter sposare una donna che palesemente non ama. Lì incontra Penny Carroll (Ginger Rogers), un'insegnante di danza, e il destino—sotto forma di una scommessa e di un equivoco su un quarto di dollaro—fa il resto. Ma la trama è il MacGuffin. Il vero soggetto del film è l'inevitabilità della loro unione, una forza cosmica che si esprime attraverso il movimento. Astaire e Rogers non si innamorano e poi ballano; loro si innamorano ballando.
Ogni numero musicale in Follie d'inverno non è un'interruzione della trama, ma la sua continuazione emotiva, la sua sublimazione. La colonna sonora di Jerome Kern (musica) e Dorothy Fields (testi) è, senza iperboli, una delle più grandi della storia del cinema. Non c'è un grammo di grasso. "Pick Yourself Up" è la loro prima vera interazione: lei, l'insegnante competente, cerca di insegnare a lui, il finto principiante. Ma la lezione si trasforma in un duello, una negoziazione di potere. Lui la provoca, lei risponde, e in tre minuti di tap dance furiosa, lui dimostra di essere il suo pari e lei dimostra di poter guidare. È la nascita di un rispetto reciproco che è già amore. "The Way You Look Tonight" (che vinse l'Oscar) è pura adorazione: Astaire la canta mentre lei ha appena fatto lo shampoo. È un momento di vulnerabilità domestica trasformato in elegia romantica. Kern e Fields ci dicono che la vera bellezza non è nel glamour, ma nell'intimità imperfetta (i capelli insaponati).
Ma Follie d'inverno si spinge oltre. Contiene due delle sequenze più complesse e problematiche della loro carriera. La prima, "A Fine Romance", è una commedia anti-romantica sulla neve (palesemente finta, ma chi se ne importa), dove i due litigano in contrappunto musicale. È il loro lato screwball portato alla perfezione. La seconda è la pietra angolare e lo scandalo del film: "Bojangles of Harlem". È l'elefante nella stanza. È un numero solista di Astaire, un (sincero) omaggio al suo idolo, il leggendario ballerino afroamericano Bill "Bojangles" Robinson. La coreografia è un capolavoro tecnico: Astaire balla con tre ombre giganti che prima lo seguono e poi si muovono contro di lui, in un tour de force di effetti speciali analogici che sfida la logica. È Astaire che spinge i confini del mezzo. Ma c'è un "ma" grande come una casa: lo fa in blackface. È impossibile, oggi, guardare questa sequenza senza un profondo disagio. È un documento del razzismo sistemico dell'intrattenimento americano del 1936. È un paradosso: un tributo genuino espresso attraverso il linguaggio dell'oppressione. Il nostro compito di critici non è cancellarlo, né perdonarlo; è capirlo come il punto di frizione tra l'ammirazione artistica di Astaire e l'insopportabile cecità culturale della sua epoca.
Se "Bojangles" è il culmine tecnico, "Never Gonna Dance" è il cuore emotivo del film. È la tesi. È, forse, il più grande duetto mai filmato. Lucky, sentendosi in trappola (perché Penny ha scoperto il suo fidanzamento), sta per perderla. Lei è ferita, lui è disperato. In cima a una scala a chiocciola Déco che sembra condurre al cielo (o al nulla), lui le canta la melodia struggente. E poi iniziano a ballare. Ma questo non è un ballo di gioia. È un ballo di addio. È una tragedia in ballroom. La coreografia di Hermes Pan (e di Astaire, ovviamente) è una lotta. Lui cerca di trattenerla, lei cerca di fuggire. I loro movimenti sono fluidi ma tesi, un push-pull di desiderio e rassegnazione. È un'intera relazione—l'incontro, il conflitto, la passione, la rottura—condensata in quattro minuti di movimento. Quando, alla fine, lei compie una serie di piroette che la allontanano da lui, su per la scala, scomparendo nell'ombra, è un colpo al cuore più potente di qualsiasi dialogo. È la dimostrazione che per Astaire e Rogers, la coreografia era il linguaggio dell'anima.
Il finale, ovviamente, ricuce tutto con la logica assurda del musical (Lucky viene licenziato, il che annulla il suo obbligo, e i due si riuniscono), ma non importa. L'abbiamo già vista la verità, in quel ballo. Follie d'inverno è un film sull'effimero. È la quintessenza della Depressione: la felicità è una bolla di sapone, il denaro è un'illusione (il gioco d'azzardo di Lucky), l'unica cosa reale è la connessione che crei con un'altra persona nel momento presente. È l'esistenzialismo in smoking e scarpe da tip tap. È l'arte che guarda l'abisso economico e sociale e risponde con un pas de deux così perfetto da farci credere, per 103 minuti, che la gravità—e la realtà—siano solo suggerimenti facoltativi.
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