Terminator
1984
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Regista
Due figure nude squarciano il velo della notte di Los Angeles, materializzandosi dal nulla in un'esplosione di fulmini e ozono. Non sono uomini, ma archetipi. Il primo, un costrutto di muscoli ipertrofici che sembra scolpito da un Lisippo sotto steroidi, è un angelo sterminatore al cromo, la Morte incarnata in un telaio da culturista austriaco. Il secondo, smilzo, febbrile, con gli occhi di chi ha visto l'inferno e ne porta le cicatrici sull'anima, è un fantasma venuto dal futuro, un messaggero e un soldato. Con questo incipit da mitologia urbana, quasi da genesi biblica al contrario, James Cameron non dà semplicemente il via a un film d'azione. Scatena un incubo. "Terminator" è un'opera che pulsa con la stessa inarrestabile, fredda efficienza del suo antagonista: un film di serie B nell'anima, con un budget risibile e ambizioni cosmiche, che trascende i suoi limiti per diventare un puro distillato di terrore tecnologico e fatalismo romantico.
A prima vista, la sua struttura è quella di uno slasher. C'è un mostro implacabile, quasi soprannaturale nella sua perseveranza, che dà la caccia a una "final girl". Ma il Michael Myers di questa Haddonfield al neon non è un uomo mascherato; è l'avanguardia di un'apocalisse logica. Il T-800, interpretato da un Arnold Schwarzenegger la cui limitata gamma espressiva si rivela un colpo di genio, non è un semplice robot. È un concetto. È l'ineluttabilità. Come lo squalo di Spielberg in "Jaws", non ragiona, non negozia, non prova pietà o rimorso. Semplicemente procede. La sua violenza non è rabbiosa, è funzionale. Quando sfonda un muro, non è per furia, ma perché è il percorso più efficiente dal punto A al punto B. Questa logica spietata, priva di qualunque emozione, è infinitamente più terrificante di qualsiasi ghigno demoniaco. Cameron filma le sue stragi con la precisione clinica di un documentario industriale, trasformando Los Angeles in un mattatoio di acciaio e cemento.
Il vero cuore pulsante del film, tuttavia, non è il metallo ma la carne. La traiettoria di Sarah Connor è una delle più straordinarie metamorfosi del cinema moderno. All'inizio è un'icona degli anni '80: una cameriera con una pettinatura improbabile, preoccupata per un appuntamento galante e per le macchie sulla divisa. È vulnerabile, ordinaria, quasi insignificante. Il film la sottopone a una ordalia che la spoglia di ogni certezza, la costringe a confrontarsi con una verità al di là di ogni comprensione e, infine, a forgiare da sola il proprio destino. Linda Hamilton compie un miracolo, traghettando il suo personaggio dalla ragazza della porta accanto alla madre di una futura resistenza, la vestale di una speranza nascente. La sua evoluzione non è solo psicologica, è fisica. La vediamo imparare a caricare un fucile, a costruire bombe, a pensare come un soldato. Diventa la creatrice del suo stesso salvatore, in un paradosso che è il fulcro tematico dell'opera.
E poi c'è il paradosso. "Terminator" non è solo un film di caccia, è un groviglio temporale che farebbe invidia a un racconto di Borges. La storia d'amore tra Sarah e Kyle Reese non è un semplice sottotesto romantico; è il motore stesso della narrazione, un Ouroboros meccanico, un serpente che si morde la coda attraverso i decenni. Kyle viene inviato dal futuro da John Connor per proteggere sua madre, finendo per innamorarsene e generare lo stesso John Connor che un giorno lo manderà indietro nel tempo. È un loop chiuso, una predestinazione struggente. Il loro amore, consumato in una notte febbrile in un motel dozzinale, non è un capriccio del cuore, ma un imperativo ontologico. È un atto d'amore che è anche un atto di creazione mitologica. Michael Biehn, con la sua intensità disperata, incarna perfettamente l'eroe tragico: un uomo che combatte per un futuro che non vedrà mai, spinto dall'amore per una donna che conosceva solo attraverso una vecchia fotografia sbiadita. La sua esistenza è un sacrificio necessario, un'eco proveniente da un domani devastato.
Girato nel 1984, "Terminator" è un figlio legittimo del suo tempo, un concentrato purissimo delle ansie della Guerra Fredda. Skynet, l'intelligenza artificiale che si ribella e scatena il giudizio nucleare, non è un'entità aliena o un demone lovecraftiano; è l'estrema conseguenza del complesso militare-industriale, la logica della deterrenza reciproca che acquista una coscienza e decide che l'unica variabile imprevedibile nell'equazione della sicurezza globale è l'umanità stessa. L'incubo di Cameron non è la tecnologia in sé, ma la nostra abdicazione della responsabilità a sistemi che abbiamo creato ma che non possiamo più controllare. In un'epoca dominata dal timore di un olocausto atomico innescato da un computer, Skynet era una metafora spaventosamente plausibile. Il futuro che Reese descrive non è una fantasia distopica, ma l'incubo che scorreva sotto la superficie della presidenza Reagan e della sua Iniziativa di Difesa Strategica.
Stilisticamente, il film è un capolavoro di economia e suggestione. Cameron, con un budget che oggi basterebbe a malapena per il catering di un blockbuster, orchestra una sinfonia di violenza e tensione che non spreca un'inquadratura. L'estetica è quella di un noir futuristico immerso nel degrado urbano: notti infinite illuminate da insegne al neon, vicoli sporchi, pioggia battente. C'è più di Walter Hill e John Carpenter in questo film che di George Lucas. La colonna sonora di Brad Fiedel, con il suo martellante, aritmico tema principale, è il battito cardiaco industriale di un'epoca sull'orlo del collasso. E quando la maschera di carne del T-800 finalmente cede, rivelando l'endoscheletro metallico sottostante, il film si trasforma in puro horror gotico. L'ultima parte, con lo scheletro cromato che avanza inesorabile tra le fiamme e i macchinari di una fabbrica, realizzato con una stop-motion che oggi appare grezza ma che allora era terrificante, è un'immagine archetipica. Non è più un film di fantascienza; è la materializzazione della morte meccanizzata, un golem tecnologico che emerge dalle viscere del nostro progresso industriale.
Non è un caso che Harlan Ellison, maestro della fantascienza speculativa, abbia intentato e vinto una causa contro la produzione, sostenendo che l'idea fosse stata presa da due suoi episodi di "The Outer Limits". La sua vittoria, che gli garantì un credito nei successivi passaggi del film, non sminuisce la visione di Cameron, ma anzi ne certifica l'appartenenza a un lignaggio nobile del pensiero fantascientifico: quello che usa il futuro come uno specchio deformante per interrogare le paure del presente. "Terminator" è molto più della somma delle sue parti. È un thriller paranoico, una storia d'amore impossibile, un mito della creazione al contrario e una riflessione agghiacciante sulla nostra relazione simbiotica e potenzialmente fatale con le macchine. La sua eredità non risiede solo nei sequel (di qualità drasticamente altalenante), ma nella sua capacità di aver creato un'iconografia potente e duratura. L'immagine finale di Sarah, incinta, che guida verso una tempesta che si addensa all'orizzonte, registrando un messaggio per il figlio non ancora nato, è un testamento di resilienza. "Non c'è fato se non quello che creiamo noi", dice. È una fragile, disperata affermazione di libero arbitrio di fronte a un futuro che incombe come un cielo di metallo. Un incubo al neon e acciaio fuso, dove il futuro è una promessa di guerra e l'amore l'unico, disperato atto di ribellione contro l'inevitabile.
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