Terra in trance
1967
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Regista
Un film non è una tesi, ma può essere un'epilessia. Un cortocircuito che illumina a giorno, per un istante abbagliante e doloroso, le sinapsi di una nazione in preda alle convulsioni. Terra in Trance di Glauber Rocha non è un racconto, è un accesso febbrile; non è un'analisi politica, è il delirio che la precede e la consuma. Per afferrarne la furia barocca e disperata, bisogna abbandonare le comode coordinate della narrazione lineare e lasciarsi risucchiare nel suo vortice operistico, un maelstrom di idee, volti, suoni e furori che incarna la tragedia dell'intellettuale latinoamericano del XX secolo, e forse di ogni intellettuale di fronte al potere.
Il suo epicentro è Paulo Martins, poeta e giornalista, alter ego dello stesso Rocha e archetipo dell'eroe byroniano trasfigurato nel crogiolo del Terzo Mondo. Martins non è un personaggio, è un campo di battaglia. In lui si scontrano l'idealismo rivoluzionario e il cinismo più corrosivo, l'urgenza dell'azione e la paralisi della riflessione. È un Amleto tropicale, la cui esitazione non nasce dal dubbio metafisico ma dalla nauseante consapevolezza della futilità di ogni scelta. Il suo peregrinare tra le due forze che si contendono la fittizia repubblica di Eldorado – il conservatore tecnocrate Porfirio Díaz e il populista messianico Felipe Vieira – non è un percorso di formazione, ma una discesa agli inferi della coscienza politica. Come il Joseph K. di Kafka si smarrisce in un labirinto burocratico che è specchio di una colpa imperscrutabile, così Paulo si perde in un labirinto ideologico dove ogni corridoio conduce alla stessa, identica stanza: quella del potere che si autolegittima, che fagocita e corrompe ogni linguaggio, persino quello della poesia.
Rocha orchestra questo calvario con una grammatica cinematografica che fa a pezzi le convenzioni. La sua macchina da presa, spesso a mano, non osserva: partecipa, trema, accusa. Si lancia in carrellate furiose, inquadra i volti in primissimi piani deformanti che ne espongono la maschera grottesca, li abbandona in campi lunghi desolati. Il montaggio è una scarica di sinapsi impazzite, un collage di jump-cut, inserti quasi subliminali e discorsi rivolti direttamente allo spettatore che squarciano il velo della finzione. Se Godard, negli stessi anni, usava la discontinuità per una decostruzione intellettuale e brechtiana del linguaggio cinematografico, Rocha la usa per simulare uno stato di shock, un trauma collettivo. Non è un'analisi fredda, è la cronaca di un attacco di panico. La colonna sonora, che fonde i canti liturgici di Villa-Lobos con tamburi rituali e declamazioni stridenti, non accompagna le immagini: le assedia, creando una cacofonia sensoriale che è la perfetta traduzione acustica del caos politico.
I due poli del potere, Díaz e Vieira, non sono semplicemente il Bene e il Male, la Destra e la Sinistra. Sono le due facce intercambiabili di un Leviatano famelico. Díaz, con la sua retorica dell'ordine e della tradizione, incarna un autoritarismo ancestrale, quasi divino, un Grande Inquisitore dostoevskiano che offre la stabilità in cambio della libertà. Vieira è il suo riflesso speculare: un tribuno del popolo che ne incarna le speranze più viscerali per poi tradirle con la stessa, inesorabile logica del potere. La sua ascesa e caduta sono una parabola shakespeariana sulla fragilità del carisma, sulla demagogia come oppio dei popoli. Quando Paulo, in un impeto di disperazione, tenta di assassinarlo, non è un gesto politico, ma un tentativo di esorcismo, il rigetto violento dell'ultima illusione. La scena, con la sua coreografia ieratica e la sua tensione quasi insostenibile, ha la potenza di un rito sacrificale andato a male, un dramma da auto sacramental deragliato nel grottesco.
Terra in Trance è il manifesto più compiuto di quella che Rocha definì "l'estetica della fame": un cinema che non nasconde la propria povertà di mezzi ma ne fa un'arma, un grido. Un cinema che "non è digestivo, ma chiede al pubblico di prendere una posizione". È un'opera che dialoga idealmente con il furore espressionista del primo Eisenstein, ma ne rovescia la fede teleologica nel progresso rivoluzionario. Laddove il regista sovietico costruiva una dialettica di immagini per condurre a una sintesi certa (la vittoria del proletariato), Rocha accumula antitesi senza soluzione, frammenti di un discorso che non riesce più a comporsi, riflettendo la crisi di un'intera generazione di intellettuali che aveva creduto nella Storia come processo razionale e si ritrovava invece a navigare in un mare di irrazionalità.
Il film è intriso dello spirito del suo tempo, il Brasile pre e post-golpe del 1964, ma la sua portata è universale. Eldorado è ogni paese intrappolato in un ciclo infinito di promesse tradite e autoritarismi mascherati. La crisi di Paulo Martins riecheggia quella del Marcello de Il Conformista di Bertolucci, entrambi personaggi alla disperata ricerca di un'appartenenza che li assolva dalla responsabilità individuale, ma se Marcello sceglie l'anonimato della normalità borghese, Paulo si immola sull'altare di un'impossibile coerenza, diventando martire di una causa che non esiste più. Il suo fallimento è la più lucida e spietata diagnosi sulla malattia del XX secolo: la fede che la cultura e l'arte possano, da sole, redimere la politica.
C'è un'analogia più profonda, quasi meta-testuale, che attraversa il film. Terra in Trance non parla solo del fallimento della politica, ma anche del potenziale fallimento del cinema politico stesso. L'urlo finale di Paulo, "Non possono capire la forza della poesia!", mentre corre armato verso il palazzo del potere, è l'urlo di Rocha stesso. È l'affermazione disperata del potere del cinema contro la brutalità della realtà, un gesto che è insieme eroico e suicida. Il film si chiude su questa corsa folle, su questa immagine sospesa, lasciandoci nel dubbio più atroce: il cinema può davvero cambiare il mondo o è destinato a rimanere un magnifico, impotente grido nel vuoto?
Vedere Terra in Trance oggi è un'esperienza estenuante e necessaria. È come leggere le Georgiche di Virgilio durante la caduta di Roma o ascoltare il Free Jazz durante un bombardamento. È un'opera che rifiuta ogni consolazione, che ci sbatte in faccia la complessità, la contraddizione e il fallimento. Non offre risposte, ma incide nella nostra coscienza le domande più urgenti e dolorose con la violenza di un bulino. È un capolavoro febbrile, un poema visivo sulla bancarotta delle ideologie, un'opera-mondo che, come i grandi romanzi di Faulkner o le sinfonie di Mahler, tenta di contenere tutto il caos dell'esistenza in una forma artistica. Una forma che, alla fine, non può far altro che esplodere, lasciandoci tra le sue rovine a contemplare la trance perenne della Storia.
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