The Act of Killing - L'atto di uccidere
2012
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Regista
Un documentario girato nel cuore febbrile di un incubo. Un saggio sulla memoria che assume le fattezze di un musical sgargiante e macabro. Un trattato sulla banalità del male messo in scena dai suoi stessi, sorridenti carnefici. "The Act of Killing" di Joshua Oppenheimer è un’architettura cinematografica impossibile, un oggetto non identificato che fluttua con grazia terrificante tra la testimonianza e l'allucinazione, costringendoci a ricalibrare la nostra stessa definizione di cinema del reale. Se la macchina da presa è tradizionalmente una finestra sul mondo, qui diventa uno specchio deformante, un catalizzatore alchemico che trasforma l’impunità in performance e la confessione in una parodia hollywoodiana.
Il dispositivo messo in campo da Oppenheimer è di una semplicità tanto diabolica quanto geniale. In Indonesia, dove il colpo di stato anticomunista del 1965 portò al massacro di oltre un milione di persone, i responsabili di quelle uccisioni non solo vivono liberi, ma sono celebrati come eroi fondatori della nazione. Oppenheimer non si limita a intervistarli. Offre loro qualcosa di inaudito: la possibilità di drammatizzare le proprie gesta, di rimettere in scena gli omicidi di massa nello stile dei loro generi cinematografici preferiti. E loro, ex gangster di strada (i cosiddetti preman, da “free man”) che per stessa ammissione si ispiravano ai film di Marlon Brando, John Wayne e Al Pacino, accettano con un entusiasmo che gela il sangue. Il risultato è un cortocircuito etico ed estetico senza precedenti, un film dentro al film dove il western, il noir e il musical diventano i linguaggi per narrare l'orrore.
Anwar Congo, il protagonista, è una figura che pare scaturita dalla penna di un Dostoevskij sotto anfetamine. Un nonno elegante, dal sorriso facile e dai modi gentili, che ci descrive con meticolosa precisione il metodo più efficace per strangolare una persona con un fil di ferro, per poi lanciarsi in un cha-cha-cha improvvisato. La sua psiche è il vero paesaggio esplorato dal film. Il processo di "fare cinema" diventa per lui un inaspettato viaggio psicanalitico. Mettendo in scena il passato, Anwar non sta semplicemente ricordando; sta costruendo una narrazione per giustificare, abbellire e infine monumentalizzare se stesso. Ma il cinema, questa macchina di finzione, si rivela uno strumento a doppio taglio. A forza di rappresentare l'orrore, l'orrore inizia a guardare indietro. Come in un racconto di J.G. Ballard, dove la perversione si annida nella normalità più sfacciata, le sequenze surreali e kitsch – come il numero musicale in cui le vittime ringraziano Anwar dal paradiso ai piedi di una cascata – non depotenziano la violenza, ma ne rivelano la radice più profonda: una grottesca e disperata ricerca di significato.
Il film opera a un livello di meta-riflessione che richiama alla mente le pratiche più radicali del modernismo. C'è un'eco del Verfremdungseffekt di Bertolt Brecht: lo spettatore è costantemente consapevole della messa in scena. Le telecamere sono visibili, le discussioni sulla sceneggiatura sono parte del film, gli errori e le risate sul set sono incluse nel montaggio. Questo straniamento non crea distanza, ma un'intimità terrificante. Ci impedisce di relegare Anwar e i suoi complici nella comoda categoria dei "mostri". Li vediamo come esseri umani che giocano, che si vantano, che si preoccupano della qualità del loro makeup da zombie, che discutono se una scena sia abbastanza "drammatica". E in questa umanità, in questa prosaica organizzazione dello sterminio, risiede l'intuizione più sconvolgente del film, un'incarnazione quasi letterale del concetto di "banalità del male" di Hannah Arendt. Questi non sono freddi burocrati come Eichmann, ma uomini il cui immaginario è stato plasmato dalla cultura pop americana. Hanno ucciso sentendosi come gangster in un film di Scorsese, e ora Oppenheimer offre loro il sequel.
La pellicola si trasforma così in un'analisi spettrale del potere delle immagini. Se, come sosteneva Godard, il cinema è la verità 24 volte al secondo, "The Act of Killing" ci mostra come la menzogna possa essere costruita alla stessa velocità. I preman non hanno solo commesso un genocidio; hanno vinto la battaglia per la sua narrazione. Controllano i media, indottrinano i giovani con la loro versione della storia, e il film stesso, con la sua proposta di glorificazione, diventa l'apice di questo processo di auto-assoluzione. Eppure, proprio qui sta il colpo di scena. La camera di Oppenheimer, apparentemente complice, si rivela un reagente chimico potentissimo. Nel momento in cui Anwar interpreta la parte di una delle sue vittime durante una violenta ricostruzione, qualcosa in lui si spezza. La finzione diventa troppo reale. Il corpo, più onesto della mente, si ribella. La celeberrima scena finale, in cui Anwar è scosso da conati di vomito sul tetto dove un tempo uccideva, è uno dei momenti più potenti della storia del documentario. Non è una facile catarsi, non è redenzione. È il collasso totale della narrazione. È il linguaggio che viene a mancare, lasciando solo il rantolo di un corpo che non riesce più a contenere il peso di ciò che ha fatto. È il fallimento del cinema come strumento di menzogna e il suo trionfo come rivelatore di una verità inarticolabile.
A fianco di Anwar, si muovono figure altrettanto significative. Herman Koto, il suo corpulento e istrionico sodale, incarna l'aspetto farsesco del potere, sempre pronto a travestirsi e a esagerare, come un Falstaff calato in un dramma di Shakespeare. E poi c'è Adi Zulkadry, l'intellettuale del gruppo, lucido, impenitente, che spiega con agghiacciante razionalità che "crimine di guerra" è un termine definito dai vincitori e che la morale è solo una questione di pubbliche relazioni. Se Anwar rappresenta il tormento inconscio, Adi è la coscienza che ha scelto attivamente e filosoficamente il male, trovando pace nella propria spietatezza.
Con la sua estetica che fonde la crudezza del cinéma vérité con la visionarietà di un film di Alejandro Jodorowsky, "The Act of Killing" trascende il genere documentario. È più vicino a un'opera come "Salò" di Pasolini, che utilizzava la ritualizzazione e l'estetizzazione della violenza per svelare la natura del potere fascista. Ma mentre Pasolini creava una finzione allegorica, Oppenheimer trova l'allegoria direttamente nella realtà, lasciando che siano i suoi soggetti a costruire la propria, personalissima discesa agli inferi. È un film che non offre risposte facili, che non condanna né assolve in modo didascalico. Ci lascia soli, nel buio della sala, a interrogarci sui meccanismi della memoria, sul confine labile tra storia e fiction, e sulla spaventosa facilità con cui l'essere umano può trasformare l'omicidio di massa in un aneddoto da raccontare davanti a una telecamera, magari con il sottofondo musicale giusto. Un capolavoro abissale, uno specchio nero che, mostrandoci il volto sorridente del carnefice, finisce per riflettere un frammento oscuro della nostra stessa umanità.
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