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Giungla d'Asfalto

1950

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Huston firma uno dei più bei gangster movie screziato di noir di sempre e lo fa con una leggerezza e al contempo una profondità di campo che ne hanno fatto un caposaldo del genere. Non si tratta di mera cronaca criminale, bensì di un’autopsia della disperazione umana, narrata con una lucidità quasi clinica che prescinde da ogni retorica o giudizio moralistico.

La cosa migliore del film è senza dubbio la profonda e al contempo schematica raffigurazione di ogni personaggio coinvolto nella narrazione. Questa dicotomia – profondità e schematismo – è il vero genio di Huston. Non ci vengono presentati personaggi "rotondi" nel senso letterario più tradizionale, con archi narrativi completi e complessi retroscena psicologici, quanto piuttosto essenze umane cristalline, quasi archetipi viventi le cui motivazioni sono immediate, palpabili nella loro crudezza e disperazione.

L’elemento umano è michelangiolescamente campito nella sua intrinseca specificità: vizi, emozioni, pensieri, tensioni, parole, gesti. Come le figure scolpite dal blocco di marmo che rivelano l'anima nuda, così Huston scarnifica i suoi protagonisti, portando alla luce la loro essenza più vulnerabile. Non sono semplicemente "criminali"; sono uomini accecati da sogni irrealizzabili – il contadino che brama la sua terra, l'intellettuale che insegue il suo ritiro dorato – intrappolati in una spirale di scelte sbagliate e fatalità. I personaggi sono semplici fredde silhouette simboliche in un mondo stilizzato; Huston rompe la barriera intellettuale dell’espressionismo, e permette ai personaggi di brillare in tutta la loro gloriosa umanità senza infondere né retorica né pathos. Laddove l’espressionismo tedesco spesso distorceva la realtà per riflettere uno stato d’animo soggettivo e angoscioso, Huston opta per un realismo crudo che, pur mantenendo l’atmosfera claustrofobica del noir, permette ai volti e ai gesti di esprimere la tragedia senza bisogno di amplificazioni stilistiche. La telecamera di Harold Rosson, con la sua fotografia in bianco e nero che scolpisce luci e ombre, è complice di questa operazione: non falsifica la realtà, ma la esalta nella sua drammatica austerità, rendendo la giungla d'asfalto non un mero sfondo, ma un predatore silenzioso che attende i suoi abitanti.

La storia prende corpo intorno al progetto di una rapina in una gioielleria. È il classico "heist movie" ante-litteram, un modello che avrebbe influenzato innumerevoli opere successive, da Rififi di Jules Dassin (pur essendo questo precedente) a Ocean's Eleven, fino ai complessi intrecci di Quentin Tarantino. La narrazione si concentra non tanto sul "cosa" ma sul "come" e sul "perché" umano del crimine. Artefice e mente del colpo è un avvocato sull’orlo del fallimento, Alonzo Emmerich, un uomo della "rispettabile" società le cui fragilità morali si rivelano più pericolose di quelle dei suoi complici criminali. Gli esecutori materiali sono una banda eterogenea di varia umanità, un campionario di archetipi del sottobosco urbano: il giocatore incallito, il ladro di casseforti intellettuale, il "gorilla" dal cuore tenero. Porteranno a termine il colpo ma lasceranno delle labili tracce su cui si avventerà la polizia, non tanto per errori grossolani quanto per l’infallibile legge del caso e della fragilità umana. Un banale colpo di tosse, un errore di valutazione, l’imprevisto che squarcia il velo della perfezione criminale e rivela la precarietà di ogni piano umano.

Sarà l’inizio di un lento gioco al massacro in cui ogni componente della banda cade inesorabilmente nella rete. È la discesa nell'Inferno della paranoia e della reciproca diffidenza, dove l'ambizione si scontra con la realtà brutale e la solidarietà è solo una facciata che si sgretola al primo soffio di vento. Il film esplora il tema del destino ineluttabile, tipico del noir più cupo: una volta intrapresa la via del crimine, non c'è ritorno, solo una progressiva erosione dell'individuo. La fuga, quando tentata, è un miraggio illusorio, che si risolve in un'amara e poetica ironia, come il viaggio finale di Dix Handley. Persino la breve ma iconica apparizione di una giovanissima Marilyn Monroe, nel ruolo di Angela Phinlay, l’amante di Emmerich, aggiunge un tocco di vulnerabilità e innocenza corrotta a questo affresco di miseria morale, ancorando il film non solo al suo genere ma anche a un preciso momento storico-culturale di Hollywood.

Un riferimento per tanti uomini di cinema che hanno amato visceralmente questo film, da Stanley Kubrick a Martin Scorsese, che ne hanno assimilato la lezione sulla costruzione del personaggio e sulla fatalità del racconto criminale. Huston ha dato libero sfogo al suo grande estro ricavandone un bastione su cui erigere la fortezza della Settima Arte, un modello per il modo in cui una storia di genere può elevarsi a commento sociale e studio psicologico, un'opera che, pur muovendosi tra gli stilemi del noir, li trascende per offrire una visione universale e spietata della condizione umana. Difficile non considerare questo film un capolavoro senza tempo, un'opera di un realismo quasi documentaristico, eppure intrisa di una malinconia poetica che continua a risuonare potentemente con ogni visione.

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