Festen
1998
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Regista
Si tratta del primo film che aderisce a Dogma 95, il movimento cinematografico fondato da Lars von Trier e lo stesso Thomas Vinterberg. Il manifesto di Dogma contiene un decalogo di regole a cui ogni regista che lo sottoscrive si deve attenere: non vanno usate scenografie, non vanno installate postazioni per le cineprese ma la camera dev’essere sempre portata a mano, il suono dev’essere in presa diretta, niente colonna sonora, luci artificiali e filtri non sono permessi etc. Tutto questo per liberare il cinema dalla cancrena degli effetti speciali e degli investimenti miliardari. Non era un mero esercizio stilistico, né un capriccio avanguardistico fine a sé stesso, ma una vera e propria dichiarazione di guerra contro l'artificio dilagante e l'omologazione hollywoodiana che minacciava di soffocare ogni autentica espressione artistica. Il "Voto di Castità" imposto ai registi non era un ostacolo, ma un ponte verso una purezza narrativa ed emotiva, una ricerca quasi monastica della verità attraverso la limitazione delle risorse. L'assenza di artifici tecnici non era una rinuncia, ma una liberazione, un atto di fede nella forza della storia e nell'abilità degli attori di comunicare senza veli.
Vinterberg quindi realizza un’opera rispondente a canoni così rigorosi e ne esce un meraviglioso melodramma famigliare. La scelta della telecamera a mano, lungi dall'essere una mera convenzione di genere, diventa qui un occhio intrusivo e partecipe, quasi un membro aggiunto della famiglia, che si muove irrequieto tra i personaggi, catturando ogni smorfia, ogni esitazione, ogni scatto d'ira con una immediatezza che trafigge lo schermo. Le inquadrature spesso sovraesposte o sottoesposte, l'audio che talvolta si perde in un caos di voci e rumori ambientali, non sono imperfezioni tecniche ma strumenti narrativi che immergono lo spettatore in un'atmosfera di cruda realtà, amplificando il senso di disagio e l'imminente catastrofe.
Un anziano patriarca compie sessant’anni. Quale migliore occasione per riunire la sua allegra famiglia nell’avito castello di famiglia e festeggiare insieme? Ma qualcosa di strisciante muterà la panna in acido e la gioiosa ricorrenza si trasformerà in un lungo incubo dialettico senza vie d’uscita. Questo rito annuale, che dovrebbe cementare l'unità e la facciata di perfetta armonia borghese, diventa il palcoscenico di un dramma intimo che si apre a squarci laceranti sul lato oscuro dell'animo umano. L'ambientazione stessa, un castello antico e apparentemente maestoso, si rivela presto una prigione dorata, un teatro claustrofobico dove i fantasmi del passato danzano tra i banchetti, avvelenando ogni boccone di gioia apparente. La festa, lungi dall'essere una celebrazione, si converte in un'ordalia, un tribunale domestico dove le accuse vengono lanciate come macigni e la verità emerge a colpi di martello, frantumando ogni convenzione e ipocrisia.
La contrapposizione padre e famiglia assume i toni di un affresco goticheggiante con lo spazio che divide i due contendenti che si popola di mostruose colpe del passato, crimini sussurrati e infine urlati, un odio dapprima sotterraneo poi dilagante. In questa discesa agli inferi domestici, Vinterberg evoca l'eco delle grandi tragedie greche, dove il destino e le colpe ancestrali si abbattono inesorabili sui protagonisti, ma lo fa con una brutalità e una contemporaneità che richiamano alla mente la ferocia psicologica di un Haneke, priva di ogni sentimentalismo, o la dissecazione chirurgica dei rapporti familiari tipica di un Ingmar Bergman. Non è un horror soprannaturale, ma la peggiore delle mostruosità: quella che si annida nel cuore della famiglia, tra le mura domestiche, dove l'amore dovrebbe regnare sovrano e invece covano abusi e tradimenti silenziati. Il dolore di chi ha subito e la complicità di chi ha taciuto creano una tensione palpabile, quasi soffocante, che si taglia con il coltello, come la torta nuziale che non sarà mai tagliata.
Thomas Vinterberg scrive e dirige un film raffinato, sobrio ed elegante. Nonostante la crudezza del tema e l'aggressività delle verità svelate, la regia mantiene una precisione quasi clinica, un controllo ammirevole che evita ogni facile sensazionalismo. È un'eleganza che risiede nell'essenzialità, nella capacità di far emergere l'orrore più puro con mezzi minimi, lasciando che le parole e i silenzi, gli sguardi e le reazioni, parlino da soli con una potenza devastante. Cristallino nella sua alternanza dialogica e nelle sue tensioni emotive. Ogni scambio di battute è un affondo, ogni rivelazione un terremoto che scuote le fondamenta di un equilibrio precario. Il film non solo mette a disagio, ma scuote lo spettatore dalle sue certezze, lo costringe a guardare nell'abisso delle dinamiche familiari e della perversa dialettica del potere. Non concede spazio alla retorica nè a ridondanze affettive, ma come una lama acuminata sibila diretta fino al suo bersaglio, perforando le difese emotive del pubblico e lasciando un segno indelebile. "Festen" non è solo una pietra miliare del Dogma 95; è un'opera atemporale sulla fragile, spesso velenosa, natura dei legami familiari e sull'imperativo morale di affrontare la verità, per quanto dolorosa essa possa essere, un urlo liberatorio che squarcia il velo dell'ipocrisia borghese e risuona ancora oggi con la forza di un classico moderno.
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