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L'Esorcista

1973

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Un’opera che non si è limitata a segnare un’epoca, ma l’ha ridefinita, cesellando un’impronta indelebile non solo nel genere horror ma nell’intero panorama cinematografico e culturale del XX secolo. Non un semplice intrattenimento, ma una scossa tellurica che ha introdotto la grande platea alla paura primordiale, al terrore che risiede non solo nell’oscurità esteriore, ma nel perturbante annidato nelle pieghe più intime dell’esistenza.

Con l’opera di Friedkin infatti l’horror assume una valenza universale e diviene il terrore per il soprannaturale, per il demoniaco, per l’orrore celato nell’essere a noi più caro. È un’inquietudine che trascende la superstizione per toccare corde profonde dell’animo umano: la crisi di fede, la vulnerabilità dell’innocenza, la lotta titanica tra bene e male che si consuma non su un campo di battaglia, ma tra le pareti di una stanza da letto. In un decennio, gli anni Settanta, lacerato da disillusioni politiche (Watergate) e sociali (Vietnam), in cui la fiducia nelle istituzioni e nei valori tradizionali vacillava, L’Esorcista emerse come lo specchio di un’ansia collettiva, un’esplorazione del caos che minacciava di travolgere la ragione, un confronto brutale con il male assoluto che non poteva essere spiegato o contenuto da dogmi razionali.

La storia ci racconta di un’attrice che nota cambiamenti inquietanti nel comportamento e nell’aspetto della figlia dodicenne. Nel frattempo un prete esperto di esoterismo sta perdendo la sua fede per la perdita della madre. Sarà suo compito compiere un esorcismo sulla ragazzina e cancellare da lei la parte demoniaca che la sta tormentando con l’aiuto di un decano di questa antica arte. La narrazione non si limita a un mero susseguirsi di eventi raccapriccianti; piuttosto, si concentra sulla straziante odissea psicologica dei suoi protagonisti. Chris MacNeil, l’attrice, incarna la disperazione di una madre impotente di fronte a un male inconcepibile; Padre Karras, il gesuita psichiatra, è il vero cuore pulsante del dramma, un uomo lacerato dal dubbio e dal senso di colpa, la cui battaglia contro il demone diviene una metafora della sua personale crisi spirituale. È proprio questa indagine sulle fragilità umane, sulla fede e sull’apostasia, a elevare il film al di là del mero genere.

Menzione di rito per il notevole romanzo di William Peter Blatty da cui è tratto il film, l’autore cura anche la sceneggiatura, la sua storia è convincente ed il suo merito è quello di umanizzare chi compie l’esorcismo oltre a quello di caratterizzare finemente la psicologia di ogni personaggio coinvolto nella vicenda. Blatty, con il suo retroterra cattolico e il suo interesse per la teologia, infuse nel racconto una verosimiglianza inquietante, un rigore quasi documentaristico nel trattare il rito dell'esorcismo e le reazioni della Chiesa di fronte a fenomeni inspiegabili. La sua penna non si limita a descrivere orrori esteriori, ma sonda l'abisso della coscienza e del dubbio, rendendo il conflitto tra Padre Karras e il demone una partita a scacchi esistenziale più che un mero scontro fisico. Non è l'orrore gotico dei castelli fatiscenti o dei mostri classici, bensì un orrore teologico, profondamente radicato nella tradizione giudeo-cristiana, che prende forma nella quotidianità di una casa borghese.

Infine plauso a Dick Smith del reparto make-up per il suo superbo lavoro sul personaggio di Regan, il suo trucco ha davvero fatto scuola e molte trovate (il vomito verde, gli occhi senza iride, la pelle opalescente) subiranno un vero e proprio saccheggio nel corso degli anni a venire. La sua maestria non risiede solo nella pura abilità tecnica – all’epoca, un prodigio di effetti pratici che oggi farebbero impallidire molte controparti digitali – ma nella capacità di fondere il realismo con il grottesco, trasformando il volto angelico di una bambina in una maschera di putrefazione demoniaca. Smith creò un orrore tattile, viscerale, che si radicava nella fisicità dell’attore, rendendo ogni spasmo, ogni ferita, ogni livido terribilmente credibile. Dal collo che si piega innaturalmente alle lesioni cutanee che sembrano autoinflitte, il suo contributo ha definito un canone estetico per la possessione cinematografica, tanto che ancora oggi, ogni rappresentazione demoniaca deve in qualche modo confrontarsi con l’iconografia da lui creata.

Il tocco finale naturalmente ce lo mette Friedkin con le sue inquadrature efficaci e raffinate, con una strizzatina d’occhio alle ombre del Murnau di Nosferatu nei frangenti dell’esorcismo (le ombre fuggevoli proiettate sul muro della camera di Regan in secondo piano, sono molto più inquietanti di quello che avviene in primo piano, di fronte alla cinepresa). La regia di Friedkin è un capolavoro di controllo e intensità, permeata da un realismo crudo mutuato dalla sua esperienza nei documentari e nel neo-noir di Il braccio violento della legge. Non c'è compiacimento nel mostrare il terrore, ma una precisa volontà di immergere lo spettatore in un’atmosfera di gelo e disperazione. L'uso innovativo del suono, dai sussurri subliminali ai lamenti gutturali del demone, è quasi un personaggio a sé stante, un’aggressione uditiva che amplifica la claustrofobia della stanza e la violenza della possessione. Le sue scelte stilistiche – la fotografia cupa e granulosa di Owen Roizman, la cadenza lenta ma inesorabile degli eventi, l'impiego di una colonna sonora dissonante e di rara efficacia (penso a Tubular Bells di Mike Oldfield ma anche agli inquietanti pezzi atonali di Krzysztof Penderecki) – concorrono a creare un’esperienza non solo visiva ma profondamente sensoriale. L'omaggio a Murnau, lungi dall'essere una mera citazione, rivela la comprensione profonda di Friedkin del fatto che il vero orrore risiede nella suggestione, nel non detto, nell'indicibile, e non nella volgare esibizione. È un cinema che non teme di essere lento, di costruire la tensione con metodica precisione, per poi scatenare il pandemonio con una brutalità inaudita. Il risultato è un’opera seminale, un’esperienza catartica e terrificante che ha ridefinito il potenziale espressivo del cinema horror, dimostrando come la paura possa essere veicolo per un’indagine profonda e perturbante sull’animo umano.

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