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Poster for L'Angelo Sterminatore

L'Angelo Sterminatore

1962

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Un’opera claustrofobica più che surreale questa di Buñuel, un ordito teatrale che si dipana come in palcoscenico, con tutti i crismi aristotelici delle 3 unità: di luogo, di tempo e di azione. L'apparente rispetto di queste ferree convenzioni non è un mero ossequio formale, bensì un espediente per accentuare l'agonia e la disintegrazione psicologica. La rigorosa prigione spaziale del salone, immutabile e asfissiante, amplifica l'inspiegabile paralisi che affligge i personaggi, trasformando la scena in un autentico laboratorio morale. Buñuel, con la sua consueta lucidità quasi chirurgica, non indulge in voli onirici o associazioni libere tipiche del surrealismo puro alla Dalí; qui il surreale è distillato nell'assurdo di una situazione tangibile, per quanto irrazionale, trasformando una banale cena in un'inesplicabile trappola che funge da specchio per l'anima borghese.

Di riflesso certo si legge anche l’aspra e feroce satira contro il solito ceto medio borghese, bolso e beota, che ne viene fuori massacrato da questa vicenda grottesca. La sua penna affilata incide profondamente nella superficie levigata delle convenzioni sociali, rivelando la putrefazione morale che si annida sotto il velo della rispettabilità. Non è solo la loro ottusità ad essere messa alla berlina, ma la loro intrinseca vacuità, la loro incapacità di affrontare l'imprevisto se non attraverso la riproduzione di schemi vuoti e l'escalation della barbarie. L'élite messicana qui ritratta – un'immagine che Buñuel conosceva bene, avendo vissuto a lungo nel paese – diventa un simbolo universale di una classe agiata che, privata delle sue certezze e del suo rituale confortante, regredisce a uno stato primordiale, rivelando l'illusorietà della sua civiltà. È una discesa negli inferi della psiche umana, dove la fame, la sete e la paura annientano ogni parvenza di decoro.

Un gruppo di ricchi dignitari messicani si ritrova in una casa per un party, ben presto si renderanno conto che un’arcana forza impedisce loro di uscire dal salone delle feste. Questa "forza arcana", mai spiegata né tantomeno personificata, è il vero motore dell'opera, il MacGuffin buñueliano per eccellenza, che sfugge a ogni logica per spingere i protagonisti al limite della sopportazione. L'assenza di una motivazione chiara non è una lacuna narrativa, ma un'affermazione programmatica: l'assurdità della situazione è il punto, non il mezzo. È una situazione che evoca le claustrofobiche dinamiche di un Jean-Paul Sartre de "A porte chiuse" – dove l'inferno sono gli altri, specie quando la convivenza forzata strappa via ogni maschera – ma con un'inquietante vena fantastica che travalica la pura psicologia esistenzialista. La tensione non deriva da un complotto esterno, ma dalla lenta, inesorabile erosione delle facciate personali, man mano che l'isolamento li costringe a confrontarsi con la loro vera natura e quella dei loro simili.

Improvvisamente, quando tutto sembra precipitare, si ritroveranno magicamente in una Chiesa: i loro atavici timori troveranno fondamento in un corpo a corpo mistico con l’Inconoscibile. Questa transizione, apparentemente salvifica, si rivela l'ennesimo inganno, un passaggio dalla prigione fisica a quella spirituale. La Chiesa, simbolo ultimo della redenzione e della trascendenza, diventa a sua volta un'altra gabbia, un proscenio per l'ipocrisia religiosa e la vacuità della fede di circostanza. Il "corpo a corpo mistico" non è un'epifania autentica, ma una parodia grottesca del rito, una disperata quanto futile ricerca di un salvatore che non arriva, o che forse non esiste affatto in un mondo svuotato di senso. La sequenza finale, con la ripetizione ciclica dell'isolamento, suggerisce una condanna eterna, un'impossibilità di fuga dalla propria, intrinseca, miseria morale e spirituale.

Una trama bislacca per un’opera dai forti sapori ioneschiani, affascinante fino alla morte nei suoi nonsense, nella sua minuta caratterizzazione di figure patetiche, nei suoi tanti germi di innovazione narrativa. L'eco del Teatro dell'Assurdo, da Ionesco a Beckett, risuona potente in ogni dialogo svuotato di significato, in ogni azione ripetuta all'infinito, in ogni attesa vana di una soluzione che non verrà. Il "nonsense" non è casuale, ma una costruzione architettonica volta a smantellare le certezze, a rivelare l'arbitrarietà delle regole sociali e l'inutilità del linguaggio quando la realtà si disgrega. L'innovazione narrativa non si limita al disconoscimento della causalità, ma si estende a una struttura quasi circolare, un loop temporale ed esistenziale che riflette l'impossibilità di evasione dal proprio destino. Buñuel trasforma la messa in scena in un'allegoria della condizione umana, dove la ripetizione del rito si fonde con la ripetizione della catastrofe, in una spirale senza fine di assurdità e disperazione.

Buñuel come al solito è Maestro nel far danzare i suoi burattini dentro l’angusto proscenio semantico che riserva loro: essi si dibattono, si scuotono, discutono, litigano, pontificano. Li osserva con un distacco quasi clinico, godendo nel vederli spogliarsi delle loro maschere sociali, regredire a impulsi primari, mentre la vernice della civiltà si sfalda. Il loro dibattersi è patetico eppure tragico, le loro discussioni diventano sempre più incoerenti e futili, i loro "pontificare" si rivelano come l'ultimo, disperato tentativo di auto-affermazione in un mondo che ha smesso di ascoltarli. La loro prigionia non è solo fisica, ma mentale e spirituale, confinati entro i limiti della loro stessa mediocrità e del loro egoismo, che li rende ciechi di fronte a qualsiasi possibilità di solidarietà o redenzione collettiva.

Ma sono come cristallizzati in una realtà che non li riguarda, che non ha più cura di loro, automi svuotati di ogni dignità umana. Sono figure bloccate in un purgatorio di loro stessa creazione, costretti a confrontarsi con l'orrore della loro vacuità. Non sono solo privati della libertà, ma della loro stessa essenza, ridotti a mere funzioni biologiche e psicologiche, esposte nella loro cruda, sconvolgente vulnerabilità. Il film si erge così a metafora bruciante dell'alienazione e della decomposizione sociale, un monito inquietante su ciò che accade quando le fondamenta della convivenza civile si sgretolano e l'umanità si confronta con il nulla che essa stessa ha generato.

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